“Analizzati i fatti e la documentazione, ci riserviamo di decidere la strategia più opportuna per presentare una istanza di scarcerazione”: così all’Ansa l’avvocato Alessandro Cerella del foro di Vasto (Chieti) che fa parte del pool di legali difensori di Matteo Messina Denaro.
“Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, primo perché ho l’aggeggio che le cercava, che non l’avete trovato; e poi perché le riconosco”. Così, nell’interrogatorio reso ai pm di Palermo dopo l’arresto, Matteo Messina Denaro spiega come era in grado, da latitante, di individuare le videocamere piazzate nel trapanese dagli investigatori che gli davano la caccia. Al procuratore di Palermo che gli chiede dove avesse nascosto l’apparecchio usato per intercettare le telecamere, mai trovato nei covi del capomafia il boss risponde: “In un altro posto. No, a Campobello no, era un altro… non era in quella casa…”.
“Poi c’era un’altra cosa: – prosegue il boss – molte di queste telecamere, quando le piazzavano – perché all’inizio, quando iniziarono, erano tutte di notte, poi anche di giorno – c’era un segnale, il maresciallo dei ROS c’era sempre lui; appena si vedeva lui con due o tre fermi in un angolo, già stavano mettendo una telecamera, anche se ancora non avevano messo”. “Va beh, ma lei non è che era sempre in giro?”, gli dice il magistrato.. “No, me lo dicevano. Amici miei, che non dico”
“Lo sa il selfie con il medico lo sa com’è nato? Lui è stato uno di quelli che mi operò, il primo aiuto, al fegato; io ci andavo ogni mese, perché lui mi doveva visitare la ferita, me la curava lui, perché è una ferita abbastanza pesante. Ad un tratto mi alzo, ci salutiamo, perché avevamo un rapporto… ci davamo pure del tu, abbracci, bacio, eh, sto per girarmi e mi fa cosi: ‘Ce lo facciamo un selfie assieme?, e io che dico no?”. Così, nel corso dell’interrogatorio reso ai pm di Palermo a febbraio, Matteo Messina Denaro ha raccontato l’origine del selfie scattato con uno dei medici della clinica La Maddalena che tante polemiche suscitò dopo la cattura del boss. “Ma lui sapeva che mestiere faceva?”, gli chiede il magistrato. “Si, l’imprenditore agricolo, olio di olive”, risponde il capomafia.
“Matteo Messina Denaro si è risvegliato dall’operazione che è andata molto bene, è vigile e attivo. È in terapia intensiva solo per prassi dopo interventi del genere”. Lo dice il garante dei detenuti in Abruzzo, Gianmarco Cifaldi dopo l’intervento a cui è stato sottoposto all’ospedale dell’Aquila il boss mafioso.
“La degenza in ospedale dipende dalla combinazione tra il consulto sanitario e gli approfondimenti del Dap che deve valutare le azioni per garantire la sicurezza interna ed esterna – afferma ancora Cifaldi – Tutte le azioni vanno a garantire i diritti costituzionali sia per il boss sia per tutte le persone libere”.
Quanto alla richiesta di scarcerazione annunciata dai difensori di Messina Denaro in quanto il regime del 41 bis sarebbe incompatibile con le condizioni di salute di Messina Denaro, Cifaldi sottolinea: “Garantiamo il diritto alla salute con personale medico qualificato e tutte le agenzie dello Stato stanno operando nel rispetto del dettato costituzionale, me compreso”.
Nega di aver fatto parte di Cosa nostra, respinge le accuse di stragi e omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia, smentisce di aver mai trafficato in droga (“ero benestante, mio padre faceva il mercante d’arte”), sostiene che la sua latitanza è terminata solo per colpa della malattia. In 70 pagine di interrogatorio, reso al procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e all’aggiunto Paolo Guido Matteo, Messina Denaro non concede nulla ai magistrati.
Un verbale depositato nel giorno stesso in cui le condizioni di salute di Messina Denaro, in peggioramento, rendono necessario un ricovero all’ospedale dell’Aquila al reparto di chirurgia. L’ex latitante, paziente oncologico, nelle scorse settimane aveva subito un piccolo intervento ed era però rientrato nell’istituto di pena in giornata.
Nel lungo verbale il boss mette subito in chiaro: “Escludo di pentirmi”. Accetta di rispondere alle domande, ammette solo quel che non può negare: il possesso della pistola, la corrispondenza con Bernardo Provenzano, la vita da primula rossa scelta per difendersi dallo Stato che lo accusa “ingiustamente” e poco altro. “La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata”, dice. “Non sono uomo d’onore. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali”, spiega. “E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?”, gli chiedono i magistrati.
“Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra”, risponde ma sottolinea: “Non h commesso i reati di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare”. Nella lista dei crimini mai commessi c’è anche il traffico di droga. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte”, spiega parlando di Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina.
“Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte. E sulla cattura ha le idee chiare: “Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’ arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia”. Fin quando ha potuto, racconta , ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole.
Ma poi ha dovuto cedere. Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza ha citato un proverbio ebraico: “se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta”. “Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…”, si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore “allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone, che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta”. Su un punto il boss torna più volte: “Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo…ma con l’omicidio del bambino non c’entro”, spiega negando di aver partecipato al delitto del piccolo rapito per indurre il padre a ritrattare le accuse. Per Messina Denaro il responsabile fu Giovanni Brusca. Ma tiene anche a precisare che in un ‘audio choc diffuso nei mesi scorsi “non volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione”.