“È finita”, sarebbe questa la frase pronunciata dal boss Messina Denaro al suo autista Giovanni Luppino quando ha capito che di lì a poco sarebbe finito in manette. Lo ha detto lo stesso Luppino al gip sostenendo di essersi reso conto della vera identità del boss, presentatogli mesi prima con un altro nome, solo in quel momento. Luppino vedendo i carabinieri avvicinarsi avrebbe detto al capomafia se cercassero lui e Messina Denaro avrebbe risposto: “si, è finita”.
Nonostante sia incensurato, “deve sottolinearsi che, per quanto allo stato è dato sapere, l’indagato risulta la persona più vicina allo storico capo della mafia trapanese su cui forze di polizia giudiziaria e magistratura siano riusciti ad oggi a mettere le mani”. Lo scrivono i pm di Palermo nella richiesta di convalida dell’arresto e di ordinanza di custodia cautelare per Giovanni Luppino, l’agricoltore trapanese bloccato nel blitz alla clinica La Maddalena che ha portato all’arresto del boss Matteo Messina Denaro.
Luppino è dunque un “collaboratore certamente fidato”, scrivono ancora i magistrati, dell’ultimo boss stragista “capace di mantenere fino a oggi l’anonimato e il suo stesso stato di latitanza a fronte di centinaia di arresti di fiancheggiatori e decine di prossimi congiunti, verosimilmente custode di verità inerenti le pagine più cupe della storia repubblicana”. E che Luppino fosse perfettamente a conoscenza di chi fosse colui che si celava dietro l’identità di ‘Andrea Bonafede’, i pm lo ribadiscono in un altro passaggio della richiesta. L’autista di un boss, affermano è “necessariamente un soggetto di assoluta fiducia della persona ‘accompagnata'” e “inevitabilmente al corrente del delicato compito affidatogli”.
“E come mai – aggiungono – potrebbe essere il contrario”, soprattutto nel caso di specie in cui il latitante è un capo mafia latitante da 30 anni. Luppino ha quindi “contribuito, in senso materiale e causale, alla prosecuzione della latitanza: facendogli da autista e accompagnatore personale ha certamente garantito” al boss “possibilità di spostamento in via riservata senza necessità di dover ricorrere a mezzi di locomozione direttamente condotti dallo stesso latitante o mezzi di locomozione pubblici o privati che potessero in qualche modo esporlo alla cattura”.
Allo stato, concludono i magistrati, “nessun elemento può consentire di ritenere che una figura che è letteralmente riuscita a trascorrere indisturbata circa 30 anni di latitanza, si sia attorniata di figure inconsapevoli dei compiti svolti e dei connessi rischi, e anzi, l’incredibile durata di questa latitanza milita in senso decisamente opposto, conducendo a ritenere che proprio l’estrema fiducia e il legame saldato con le figure dei suoi stessi fiancheggiatori, abbia in qualche modo contribuito alla procrastinazione nel tempo della sua cattura che, altrimenti, sarebbe potuta effettivamente intervenire anche in tempi più risalenti”.