Nell’udienza davanti ai giudici del Riesame di Catania la difesa dei 31 indagati finiti nell’operazione antidroga Algeri ha chiesto che non c’è alcun reato associativo da addebitare ai loro clienti.
Nell’inchiesta, condotta dai magistrati della Dda di Catania e dai carabinieri di Siracusa, le persone, finite nella retata delle settimane scorse, sono accusate, a vario titolo, di associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, aggravata dall’uso delle armi, dall’impiego di minori di 18 anni. I giudici si sono ritirati in Camera di Consiglio per decidere se dare credito alla ricostruzione degli inquirenti o dare ragione alla tesi della difesa, rappresentata dagli avvocati Junio Celesti, Giorgio D’Angelo e da altri legali.
E’ stato scarcerato Alfredo Gugliotta, 42 anni, le cui condizioni di salute erano incompatibili con la detenzione in carcere, dunque la richiesta del difensore è stata accolta dai giudici. In merito alla posizione di Maximiliano Genova, 40 anni, indicato come il leader del gruppo di via Algeri, catturato a Malta, si trova adesso nel penitenziario di Napoli e per lui l’udienza al Riesame ci sarà nei prossimi giorni.
Le indagini, avviate dai Carabinieri del Nucleo Investigativo nel novembre 2018 e proseguite fino al luglio 2019 hanno permesso di svelare, attraverso le intercettazioni e le microtelecamere, l’esistenza di un sistema criminale, capeggiato da Maximiliano Genova, catturato a Malta dove si era rifugiato, composto da tre nuclei familiari (Cacciatore, Linares e Fortezza) Il denaro accumulato con la vendita di cocaina, hashish, crack, e marijuana, oltre ad arricchire il capo del sodalizio, sarebbe stato utilizzato per nuovi approvvigionamenti e per pagare gli stipendi dei corrieri, staffette e spacciatori al dettaglio.
Lo spaccio avveniva all’interno dei portoni e negli androni interni alle scale delle case popolari, con gli accessi protetti da cancelli costruiti abusivamente dagli spacciatori, così da impedire o ritardare irruzioni da parte delle forze dell’ordine. La capacità intimidatrice del gruppo era tale da imporsi anche sugli altri residenti nelle palazzine che non erano in possesso delle chiavi dei cancelli abusivi ed erano così costretti, per entrare ed uscire, a chiedere il permesso alle sentinelle armate che, a turno, presidiavano il territorio ininterrottamente per l’intero arco delle 24 ore.
La zona era costantemente presidiata, giorno e notte, da spacciatori e vedette ed era organizzata con più turni di lavoro, una vera e propria “centrale” dello spaccio aperta 24 ore su 24. I singoli pusher si recavano, per l’organizzazione e la rendicontazione dello spaccio, in alcuni locali, denominati dagli indagati “ufficio” e “magazzino”.
Il primo era il luogo dove avvenivano le riunioni del gruppo e la ricezione dello stupefacente da parte dei fornitori, dove si effettuava la cottura della cocaina, dalla quale veniva ricavato il crack, e presso cui si procedeva al confezionamento della sostanza ed alla distribuzione delle dosi agli spacciatori incaricati della vendita al dettaglio. L’ufficio si trovava nelle abitazioni delle famiglie Cacciatore e Linares, che si sono avvicendate nella gestione.
Le donne si sarebbero ritagliate il ruolo di manager del gruppo, gestendo gli approvvigionamenti di droga ed occupandosi del confezionamento fino alla consegna della sostanza ai pusher.
I figli minori assistevano puntualmente a tutte le operazioni relative al traffico degli stupefacenti che avveniva a casa della famiglia Cacciatore, infatti, secondo i carabinieri, i figli erano presenti quando il padre e la madre cucinavano e confezionavano le sostanze di vario genere trattato dal gruppo, alle riunioni ed agli incontri con spacciatori e fornitori, ed ai conteggi, inoltre effettuavano telefonate per conto dei genitori. I minori di altro gruppo familiare effettuavano invece regolarmente il proprio turno di spaccio o vedetta, come riscontrato dalle riprese video ed intercettazioni e come confermato dalla presenza dei loro nomi all’interno dei registri contabili sequestrati.
Il sodalizio, dai riscontri delle forze dell’ordine, inviava soldi agli associati detenuti al fine di evitare collaborazioni da parte degli arrestati. Tutti gli affiliati al gruppo percepivano uno stipendio parametrato in base alla mansione ed al ruolo svolto all’interno dell’organizzazione. Lo stipendio settimanale dei magazzinieri era di 250 euro a settimana; 400 euro agli spacciatori con turni di 8 ore; Mario Cacciatore e Erminia Puglisi incassavano 250 euro ciascuno a settimana, altro 250 euro per la gestione dell’ufficio, con introiti complessivi quindi di circa 3.000 mensili. Inoltre, le indagini dei carabinieri hanno permesso di scoprire l’estrema pericolosità del gruppo, i cui appartenenti non esitavano ad usare la violenza e ad armarsi per regolare le beghe interne.