Naufragio, morte e nuovo scontro fra l’Italia e le Ong. Sono 30 i dispersi, quasi certamente morti, che potevano essere salvati secondo le organizzazioni non governative e secondo i 17 superstiti. un naufragio avvenuto non in acque Sar (area di ricerca e soccorso) italiane ma al largo della Libia

Superstiti a Pozzallo

Sono tutti originari del Bangladesh i superstiti arrivati nel pomeriggio a Pozzallo, il porto in provincia di Ragusa. Il mercantile Froland che li ha soccorsi è arrivato in rada, poi gli stranieri sono stati prelevati da motovedette della Guardia costiera che li hanno portati a terra. A bordo anche i due migranti per i quali, in un primo momento, era stata disposta l’evacuazione medica a Malta. Ad avvistare per primo l’imbarcazione alla deriva la mattina di sabato è Sea Bird, l’aereo della ong Sea Watch, che si era mosso in seguito ad un sos lanciato da uno dei passeggeri al servizio telefonico Alarm Phone.

I colloqui telefonici con il mercantile

Sea Watch ha pubblicato i colloqui avvenuti con il mercantile intervenuto, il Basilis L., il Centro di coordinamento marittimo libico e quello italiano, l’Mrcc della Guardia costiera di Roma. Il mercantile fa sapere che l’autorità italiana lo ha invitato a seguire le indicazioni del Centro libico. Contattato, quest’ultimo spiega di non poter mandare alcun mezzo in soccorso. Sea Watch chiama dunque il Centro italiano e chiede: “chi è responsabile ora per questo caso visto che il centro libico non è in grado di rispondere?”. Ma Roma non risponde e riattacca il telefono. Il rischio di un naufragio, attacca la ong tedesca, “era noto alle autorità da oltre 24 ore. Li hanno consapevolmente lasciati affogare”. Monta quindi un altro caso – dopo quello di Cutro – per il mancato intervento italiano, seppure questa volta in acque non di propria competenza. Nella ‘Direttiva per il coordinamento unificato dell’attività di sorveglianza delle frontiere marittime e per il contrasto all’immigrazione illegale’ inviata il 19 marzo 2019 al capo della Polizia, ai comandanti di Carabinieri, Guardia di finanza e Guardia costiera ed al capo di Stato Maggiore della Marina Militare, l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, spiegava che “il nostro Paese ha certamente l’obbligo di garantire la salvaguardia della vita umana in mare e di coordinare le operazioni di soccorso, anche fuori dalla propria regione di competenza, allorquando richiesto in tal senso, ma soltanto fino a quando il Rescue coordination center (Rcc) competente per area non abbia formalmente assunto il coordinamento dell’evento e, quindi, la responsabilità delle operazioni di soccorso”.

Dopo il no della Libia ai soccorsi toccava a Malta l’intervento

In occasione delle operazioni di soccorso alla nave affondata davanti alla Libia la centrale della Guardia costiera ha assunto il coordinamento anche se questo sarebbe stato compito delle autorità maltesi. “Capita spessissimo” che Malta non lo assuma quando gli competerebbe, ha sottolineato Gianluca D’Agostino, capo della centrale operativa della Guardia costiera, intervistato a Quarta Repubblica, su Rete 4, sottolineando che l’Italia, con la sua Guardia costiera, ” è considerata il centro nevralgico del Mediterraneo”.

I mezzi italiani non avevano autonomia per arrivare

Tornando sulle dinamiche del naufragio, D’Agostino ha spiegato che “da un punto di vista tecnico si può entrare nell’area sar libica, che sono acque internazionali, ma da un punto di vista normativo, una volta che giunge la richiesta d’emergenza è l’autorità competente che deve operare, in questo caso la Libia;”. Sulla possibilità che potesse intervenire la Guardia costiera italiana, D’Agostino ha sottolineato che “le nostre unità sar non potevano arrivare lì perché non avevano l’autonomia” per arrivare sul posto e tornare indietro. Mentre “le nostre navi che potenzialmente potevano arrivare in 24 ore erano entrambe impiegate nel soccorso nello Jonio”.

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