Trent’anni senza Leonardo Sciascia. Il 20 novembre del 1989 lo scrittore siciliano si spegneva nella sua abitazione di Palermo. Lasciando un vuoto nella cultura e non solo del nostro Paese, che ancor oggi non si riesce a colmare.
Sciascia ci è mancato tanto in questi tre decenni, ci manca tuttora e continuerà a mancarci.
La sua assenza pesa come un macigno sia come scrittore che come testimone e commentatore dei fatti sociali e politici italiani e siciliani.
Rivelatosi al grande pubblico dei lettori con «Il giorno della civetta» (si era nel 1961), uno dei primi romanzi che denuncia la mafia, Sciascia diede vita, con i suoi successivi romanzi, ad una originalissima specie di un «giallo» (se di «giallo» si può parlare) intriso di impegno civile.
L’atipicità del «poliziesco» di Sciascia si manifesta nell’assenza di un finale risolutivo. Nel tradizionale romanzo poliziesco o giallo che dir si voglia si parte dalla rappresentazione di una situazione intricata, originata da uno o più crimine, e alla fine, grazie alle investigazioni, il groviglio viene sciolto e la verità si rivela con l’individuazione del colpevole.
Nei singolari «gialli» di Sciascia invece lo sviluppo del romanzo segue un percorso opposto. All’inizio vi è un’apparente quiete, poi questa è violata da avvenimenti delittuosi e, man mano che si dispiega il racconto dei fatti, si proiettano e si addensano ombre sulla tranquillità e sull’ordinaria routine; a conclusione, non solo gli enigmi non trovano risposta ma diventano sempre più nebulosi e ingarbugliati.
Sciascia parte dalla luce per arrivare all’oscurità. Perciò Moravia, nel ricordo che gli dedicò il giorno dopo la sua scomparsa sul «Corriere della Sera», lo definì un «illuminista al contrario». Quell’oscurità è l’oscurità del potere, delle sue trame occulte, dei suoi segreti inviolabili, dei suoi inquietanti misteri, delle sue ciniche risoluzioni. Al riguardo esemplari, più degli altri, sono i romanzi «Todo modo» e «Il contesto».
Sciascia si cimentò anche in un altro genere letterario particolarissimo, di cui può rivendicare la paternità: quello del «romanzo-saggio». Nel «romanzo-saggio» lo scrittore di Racalmuto ricostruisce, attraverso una scrupolosa documentazione, avvenimenti storici. Non si tratta del classico «romanzo storico», sia per la sapiente sinteticità (i suoi sono lunghi racconti o brevi romanzi), sia perché non mira a immergersi e a fare immergere il lettore nelle atmosfere e nei contesti temporali del passato o a raccontare, con la licenza della fantasia, vite e personaggi di rilevo storico (si pensi al bestseller dell’Auci «I leoni di Sicilia»).
A Sciascia interessa altro: nel ricomporre i tasselli di vicende e figure note e poco note, egli punta a far emergere le contraddizioni, le ambiguità, i sinistri deragliamenti del potere. Ed ecco perciò come i «polizieschi» e il «romanzo-saggio» confluiscono verso un medesimo obiettivo: denunciare quella che abbiamo definito l’oscurità del potere; né è diversa la tecnica narrativa orientata a confutare le certezze –e soprattutto le menzogne – della storia e a seminare dubbi.
Naturalmente lo scrittore di «gialli» e del «romanzo-saggio» non differiva dall’opinionista attento osservatore dei costumi italiani. Il «giornalista» Sciascia demoliva i luoghi comuni e svelava i camuffamenti con intuizioni che spesso precorrevano i tempi.
Come quella sul travalicamento dei confini isolani da parte di «Cosa Nostra» espresso felicemente con la metafora «la palma va al Nord» , o come la polemica sui «professionisti dell’antimafia» .
Oggi avremmo tanto bisogno di uno scrittore e di un opinionista come Sciascia capace di guardare oltre «la siepe». Ma purtroppo la nostra ricerca è vana.
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