Riprende dalle parole dette dal boss Totò Riina agli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Opera e dalle conversazioni intercettate nel 2013 tra il boss e il compagno di detenzione Alberto Lorusso la requisitoria del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia.
A ricordare le esternazioni in carcere del boss, imputato al dibattimento e morto un mese fa, è il pubblico ministero Nino Di Matteo, che ha preso la parola davanti alla corte d’assise di Palermo che celebra il processo sul presunto patto tra pezzi delle istituzioni e la mafia negli anni delle stragi.
Di Matteo ricorda quando il capomafia, da anni recluso al 41 bis e in grado di parlare solo coi familiari una volta al mese, disse a una guardia penitenziaria: “è stato lo Stato a venirmi a cercare”. Per il magistrato il riferimento è proprio alla trattativa avviata, in un primo momento, secondo l’accusa, dai carabinieri del Ros con il padrino corleonese.
“Riina non immaginava di essere intercettato, altrimenti non avrebbe discusso di argomenti relativi ai suoi familiari e del suo patrimonio, parlando anche di beni intestati a prestanomi che non sapevamo essere suoi, né avrebbe espressamente minacciato di morte alcuni pm di questo processo”, precisa Di Matteo che difende la genuinità delle esternazioni di Riina nel corso delle conversazioni con Lorusso.
“Ci sono momenti in cui Riina nega tutto in conformità alla sua abitudine e momenti in cui si lascia andare a esternazioni importanti”, spiega Di Matteo che ribadisce più volte come al padrino corleonese il dibattimento trattativa stesse particolarmente a cuore.
Il magistrato ripercorre le conversazioni in cui Riina manifestava perplessità nei confronti di Provenzano, il
sospetto, che stentava a confidare anche a se stesso, di essere stato tradito da lui e le rivelazioni del boss sugli attentati a magistrati come Rocco Chinnici e Paolo Borsellino: anche questi elementi che proverebbero che il detenuto parlava senza timore di essere “ascoltato”.
Un cenno anche ai riferimenti che il capomafia intercettato faceva a Berlusconi: “in qualche modo mi cercava, mi ha mandato a questo e mi cercava. Gli abbiamo fatto cadere quattro o cinque volte le antenne e non lo abbiamo fatto più trasmettere. Gli abbiamo fatto questo ammonimento e non l’ho cercato più”: sono le parole riportate da Di Matteo. “Nei dialoghi, poi, il boss più volte – ricorda il magistrato – parla dei canali tramite i quali avrebbe potuto contattare Dell’Utri”, l’ex senatore di Fi pure tra gli imputati al processo.
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