Taranto e Termini Imerese sono due città gemelle. Entrambe, sul piano industriale, sono figlie del boom economico degli anni sessanta, entrambe hanno vissuto e stanno vivendo la crisi sistemica del globalismo. Quel che sta accadendo in queste ore nella citta pugliese, con il futuro di quella che era la più grande acciaieria europea, risuona come l’eco di quel dramma industriale che riguarda la nostra Termini Imerese.
Sono parecchi i punti in comune tra le due crisi aziendali. I due indotti sono nati nello stesso periodo storico, la siderurgia a Taranto svolta nel 1961, mentre Sicilfiat debutta nel 1967. Le acciaierie di Taranto erano considerate il fiore all’occhiello dell’industria del ferro, almeno sino all’inizio di questo nuovo millennio. Altrettanto si può dire per la Fiat di Termini Imerese, stabilimento considerato anche dai vertici del Lingotto come un modello produttivo.
Altro punto in comune è il danno ambientale causato dai due insediamenti, anche se l’impatto della produzione d’acciaio a Taranto ha procurato ancor più danni e malattie di quel che è successo a Termini, con stime che parlano di oltre undicimila morti causate, direttamente o indirettamente, da quel tipo di lavorazione dell’acciaio.
Eppoi, ciò che infine accomuna Termini e Taranto è la crisi degli ultimi anni, con gli interventi anche della magistratura per fare chiarezza, per far rispettare le regole del gioco e, nel caso di Taranto, per far fronte a una crisi ambientale grave ed allarmante. Ma ciò che più accomuna queste due esperienze storiche è la pessima gestione politica dei dossier e la gestione manageriale dei privati, che parlano lo stesso linguaggio: produttività e taglio dei costi e dei posti di lavoro, prima di tutto.
Termini Imerese, alla fine, purtroppo, è stata sostanzialmente rimossa dall’immaginario collettivo. Taranto, oggi, è a pieno titolo nell’occhio del ciclone. Per due ragioni: la prima riguarda l’atteggiamento ondivago del governo italiano. Con lo scudo penale applicato e rimosso ad ogni refolo di vento. Su questo tema, sul dossier Taranto, emergono in tutta chiarezza, le posizioni inconciliabili e difficilmente gestibili di una maggioranza di governo che è solo parlamentare, non essendo mai stata votata e ancorata al Paese reale. Il secondo aspetto è la motivazione “mercatistica” di Arcelor Mittal nel volersi chiamare fuori dal bacino industriale di Taranto. I manager franco indiani sostengono l’impraticabilità del piano industriale, anche in presenza di uno scudo penale per i piani di riqualificazione ambientale, a causa di una bassa redditività dell’impianto e degli alti costi di gestione.
Hanno messo il governo Conte con le spalle al muro. O meglio, il governo italiano, sia nella versione gialloverde, sia in quella attuale giallorossa, ha preferito tirare a campare, sperando che il problema si risolvesse da solo. Arcelor Mittal chiede la testa di seimila lavoratori, per recuperare la produttività del sito. Accettare una simile offerta scellerata significherebbe rendere marginale quel sito industriale, accompagnarlo verso una graduale chiusura, consegnando infine una quota significativa del mercato dell’acciaio agli odiati, amati, cugini francesi. Un po’ quello che è successo negli anni passati alla Fiat di Termini Imerese, quando la fabbrica venne chiusa dai vertici torinesi nel novembre del 2011, dopo nove anni di progressivo dimagrimento.
Il collasso di Taranto, perché a sentire le proposte del governo il collasso ci sarà, avrà conseguenze devastanti per l’economia italiana, con il rischio di erodere un punto percentuale del Pil nazionale. Per l’Italia, sarebbe la certificazione della recessione.
Non possiamo continuare a far finta di niente. Con una crisi economica all’orizzonte, è da stolti non vedere che il Sistema Italia sia sotto attacco delle speculazioni straniere. Non è certo un complotto, sono le regole del mercato. Taranto e Termini Imerese, sono soltanto due tasselli di una crisi che ormai pervade l’intero sistema economico. Pensate alla crisi Alitalia, alla debolezza del sistema bancario ed alla moria di piccole e medie imprese ormai prive di mercato quanto di ossigeno.
Per salvare Taranto, questa volta non basteranno alchimie di palazzo. E non sarà sufficiente la “nazionalizzazione” come ultima spiaggia. E’ un problema politico. Per questo serve un governo autorevole e competente. Un governo che abbia le idee chiare e sappia far sentire la sua voce a chi vuole inghiottire a poco prezzo i pezzi migliori del sistema Italia. Senza una netta inversione di rotta, saremo costretti ad assistere ad una lenta, inevitabile, agonia, del nostro Paese.
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