Per la Regione siciliana si tratta dell’ennesima figuraccia. In realtà più per il sistema di controllo di legittimità costituzionale degli uffici legali dell’Assemblea Regionale siciliana. Una verifica che, almeno in questo caso, non ha funzionato. Per l’ennesima volta una legge varata dal Parlamento siciliano viene prima impugnata e dopo dichiarata incostituzionale. Ma stavolta non c’è un conflitto di interessi fra Stato e Regione, non si possono adombrare questioni politiche o ideologiche di alcun tipo nell’impugnativa e men che meno nella decisione della Corte che appare perfino scontata per alcuni versi.
La norma cassata è la legge regionale numero 1 del 2018 che porta data 8 febbraio dello scorso anno. Una legge in due articoli per approvare la quale l’Ars ha impiegato tempo e sedute ora vanificate.
La norma, in due soli articoli, stabiliva che “Ai comuni sui cui territori insistono insediamenti e/o bacini termali è consentita l’aggiunta della parola ‘terme’ alla propria denominazione, previa deliberazione del consiglio comunale adottata a maggioranza dei due terzi dei consiglieri. Entro sessanta giorni dalla pubblicazione della delibera nell’albo pretorio, i cittadini del comune interessato possono esprimere il proprio dissenso alla modifica di denominazione mediante la presentazione, alla sede dell’ente, di una petizione sottoscritta dagli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune. La mancata sottoscrizione della petizione equivale all’adesione alla modifica di denominazione. La delibera del consiglio comunale acquista efficacia alla scadenza del termine di cui al presente comma, a condizione che non sia stata presentata una petizione sottoscritta da almeno un quinto degli elettori iscritti nelle liste elettorali del comune”.
Di fatto in questo modo, obietta la Presidenza del Consiglio dei Ministri che ha impugnato la legge presentando ricorso ad aprile dello scorso anno, si espropriano i cittadini residenti nei comuni in questione della propria opinione che dovrebbe essere chiesta preventivamente con referendum e non essere trasformata in una sorta di ‘silenzio assenso’ visto che la delibera del consiglio comunale assume efficacia se non sia stata presentata una petizione entro 60 giorni e per di più con almeno le firme di un quinto dell’elettorato comunale.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 123/2019 pronunciata il 2 aprile scorso e pubblicata ieri ha dato ragione alla Presidenza del Consiglio e dichiarato ” l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Siciliana 8 febbraio 2018, n. 1 (Variazione di denominazione dei comuni termali)” perché in conflitto con il comma 2 dell’articolo 133 della Costituzione anche nel contesto caratterizzato dalla disciplina generale recata dalla legge regionale Siciliana n. 30 del 2000″.
In sintesi il principio costituzionale stabilisce che per simili cambi di nome occorre consultare i cittadini con un referendum preventivo. Nel 2000 la Regione aveva già legiferato nell’ambito dei suoi poteri in materia stabiliti dallo Statuto e applicati con la legge 30/2000. La nuova norma, ora cassata, andava a modificare parzialmente la legge 30 eccedendo palesemente quei poteri ed espropriano i cittadini del diritto ad essere consultati. Una lettura semplice sarebbe bastata visto che già lo Statuto siciliano, rileva la Corte Costituzionale “pur attribuendo alla Regione stessa potestà legislativa esclusiva in materia di ‘regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative’, prevede che tale competenza sia esercitata ‘nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato'”.
Si trattava, dunque, di stabilire se la specifica modalità di consultazione della popolazione interessata, prescelta dalla disposizione impugnata, ovvero la facoltà di promuovere una petizione, fosse idonea a soddisfare il principio costituzionale sancito dall’art. 133, secondo comma della Costituzione e per la Corte la risposta è ‘no’.
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“La giurisprudenza di questa Corte -scrivono in sentenza i giudici – ha già affermato (sentenze n. 2 del 2018 e n. 453 del 1989) che la presentazione di istanze, richieste o petizioni non garantisce il rispetto del principio di autodeterminazione, soprattutto perché un conto è il momento dell’iniziativa, altro è quello della consultazione vera e propria dell’intera popolazione interessata, da condurre secondo modalità che garantiscano a tutti e a ciascuno adeguata e completa informazione e libertà di valutazione.
Di fatto la norma doveva essere dichiarata inammissibile già in sede di vaglio preventivo da parte degli uffici dell’Ars. Cosa che non è avvenuta.
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