Vi piaccia o no, il Ministro Brunetta ha ragione. Dall’ inizio della pandemia da Covid 2019, gli italiani hanno imparato a conoscere il termine smart working, il lavoro agile. Per contenere il contagio e per non bloccare del tutto l’apparato dello Stato e delle amministrazioni locali, secondo le statistiche ufficiali, sono stati quasi sette milioni i lavoratori italiani che hanno avuto modo di sperimentare questa modalità di lavoro.
Ma quello che gli italiani non sanno, o fanno finta di non capire, è che in realtà a lavorare in smart working sono stati in pochissimi. Per un motivo che non è soltanto dovuto alla necessità di dare un nome preciso alle cose, ma anche alle carenze strutturali della nostra pubblica amministrazione.
Quel che gli italiani hanno chiamato smart working, in realtà è semplicemente “telelavoro”. La differenza è sostanziale. Smart working presuppone flessibilità, assunzione di responsabilità ed autonomia nella scelta dei tempi, dello spazio e degli strumenti di lavoro. Il telelavoro è più semplicemente il trasferimento del carico di lavoro dall’ufficio alle mura domestiche. Ed è quello che è successo in Italia. Con l’innegabile carico di polemiche, di errori amministrativi ed impreparazione, sia dal punto tecnologico, sia dal punto organizzativo.
Adesso il Ministro Brunetta – correttamente, secondo me – sostiene che sia necessario voltar pagina e tornare alla modalità in presenza, limitando (per le pubbliche amministrazioni) lo smart working ad un 15 per cento del volume complessivo del personale. Il Ministro, ha anche fatto notare che allo stato attuale non esiste un protocollo contrattuale che disciplini correttamente lo smart working, quello vero, tra i ranghi del mondo pubblico italiano. Ed è per questo che ha parlato di smart working all’italiana.
L’amore della polemica per la polemica è uno dei tratti distintivi del dibattito politico italiano. E quando parla il Ministro Brunetta, di solito, si registra una notevole esibizione muscolare da tastiera per contestare a prescindere dai suoi ragionamenti. Questa volta, le argomentazioni contro la tesi di Brunetta sono veramente esangui. C’è chi lo ha accusato di luddismo, c’è chi ha sostenuto che il ritorno in massa negli uffici agevoli i furbetti del cartellino. Ma nessuno ha affrontato il nodo politico indicato dal Ministro: la critica allo smart working in salsa italiana, che come detto lavoro agile non è ma è telelavoro.
A margine, mi sembra opportuno ricordare come le performance della pubblica amministrazione, in modalità smart working all’italiana, siano letteralmente crollate. Chi, nel pubblico, lavorava duramente, ha lavorato ancor di più, ed in condizioni talvolta assurde. Chi, invece, non si è mai distinto per efficienza e dedizione al lavoro, ha trovato in questa modalità una comoda culla dai mille alibi.
Infine, chi invoca il si lavori “tutti a casa”, dimentica che due o tre punti del nostro Pil sono collegati, direttamente o indirettamente, all’esercito di lavoratori che quotidianamente si reca dalla casa all’ufficio. Quei punti di percentuale di Pil rappresentano decine di migliaia di piccole imprese del commercio, della ristorazione e dei servizi che hanno come target di riferimento proprio la gente che lavora.
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