Dalla storica 500, quella degli anni ’60 e ’70, alla Punto modello in voga negli anni ’80 e ’90, passando dalla Panda per approdare alla Lancia Ypsilon di prima generazione, forse l’ultimo modello che la Fiat produsse in Sicilia. Lo stabilimento di Termini Imerese, per trent’anni, è stato un centro importante di produzione automobili in Italia. Serviva una parte consistente del Sud Italia e non solo la Sicilia e alcuni modelli viaggiavano anche verso il nord Italia e verso l’estero.
Nato nel 1967 con il nome di “Sicilfiat”, lo stabilimento apparteneva ad una società a partecipazione pubblica, di cui la FIAT deteneva il pacchetto di maggioranza con il 60% delle azioni e la Regione siciliana il restante 40%, tramite la Sofis prima e poi tramite l’ESPI (Ente siciliano per la promozione industriale).
Lo stabilimento fu completato nel 1970 grazie ad un consistente contributo della Regione erogato al gruppo Fiat per ottenerne la localizzazione nel territorio, con un’occupazione iniziale di 350 addetti. Parte da lì’ una storia di contribuzione pubblica durante oltre un trentennio. Nel 1977 la Fiat acquisì la totalità delle azioni, per cui lo stabilimento divenne uno dei tanti del gruppo con una forza lavoro che era in quel momento di circa 1500 addetti.
La fabbrica di Termini Imerese era divenuta un modello produttivo; con 1.500 dipendenti nel 1979 quando inizia la produzione della Panda. Era uno stabilimento a ciclo continuo ovvero non fermava mai le macchine di produzione e divideva gli operai in tre turni da 8 ore per produrre anche la notte.
La produzione crebbe a dismisura grazie ai contributi dell’Agenzia per lo Sviluppo del Sud che garantiva incentivi per compensare il gap dovuto al trasporto dalla Sicilia verso il resto d’Europa tanto che nella seconda metà degli anni ottanta a Termini la forza lavoro era più che raddoppiata arrivando a 3.200 operai con almeno 1.200 nell’indotto.
Nel 1993 iniziò la crisi del settore auto in concomitanza con l’inizio della produzione della Tipo e si verificò la prima ristrutturazione aziendale; ebbe così inizio la cassa integrazione a rotazione. Il numero di occupati continuò a scendere fino ai 1900 dell’ultimo periodo di vita in seguito alle ripetute riorganizzazioni della forza-lavoro.
In conseguenza del calo delle vendite del gruppo Fiat lo stabilimento di Termini Imerese venne inserito tra quelli economicamente poco competitivi secondo i piani aziendali, in quanto buona parte della componentistica per l’assemblaggio delle vetture era prodotta nel Nord Italia e ciò faceva aumentare i costi a causa del trasporto. Tra il 1991 e il 2001 il numero di addetti occupati si ridusse di 1.134 unità. Ma a determinare questa classificazione fu la fine dei contributi al trasporto visto che lo Stato non investiva più nel Sud, l’Agenzia era ormai chiusa da tempo e lo sviluppo era affidato, in modo crescente, più ai fondi comunitari che non a quelli statali. Fondi con regole diverse, che non potevano e non possono essere erogati ad un privato perché rappresenterebbero concorrenza sleale.
Nel 2002 inizia la fase grave della crisi con il licenziamento di 223 dipendenti e si comincia a parlare di chiusura. Nonostante scioperi e battaglie la forza lavoro scese a 1.536 unità con il calo anche dell’indotto a circa 800.
Nel giugno 2009 dopo lunghe trattative e promesse di intervento regionale e nazionale la Fiat confermava la produzione della Lancia Ypsilon fino al 2011 ma dietro revisione dell’accordo di programma. In poche parole altri soldi pubblici a compensare la sostenuta anti economicità dello stabilimento. Quelli investiti in quegli anni furono quasi 100 milioni. Ma nel gennaio 2010, arriva ugualmente la notizia della chiusura della fabbrica siciliana che avverrà formalmente il 26 novembre 2011 con l’ufficializzazione dell’accordo sulla parte economica riguardante gli incentivi alla mobilità (altri soldi pubblici) per gli ultimi lavoratori dello stabilimento, e dismesso definitivamente dalla Fiat il 31 dicembre 2011.
Da allora è stato uno stillicidio di idee poco credibili o addirittura fantasiose che sono andate dalla possibilità di insediare la Dr Motors (mai approdata davvero) fino alla realizzazione di studi televisivi e cinematografici nello stabilimento le cui ‘mura’ restano di proprietà pubblica.
Tutte vicende che apparivano chiaramente ‘peregrine’ ma utili a spendere altro denaro pubblico fra contributi rilasciati da Invitalia ai progetti di riconversione e cassa integrazione straordinaria o mobilità rinnovata per gli operai ‘diretti’ ex Fiat ben oltre i limiti di legge. La scusa ufficiale era sempre la possibilità di rilancio o di riapertura, possibilità alla quale, in realtà, non ha mai creduto nessuno o quasi.
Ma veniamo ai giorni nostri. Dal primo gennaio 2015 lo stabilimento passa alla Blutec (dietro la quale si dice sempre ci sia Fiat), società del gruppo Metec (Stola) per la produzione di componenti per auto, con il sostegno di finanziamenti erogati da Invitalia. Il piano prevede riconversione e aggiornamento della linea produttiva e progressivo reimpiego degli operai a iniziare dai primi novanta riassunti a ottobre del 2015 per fare la formazione sulla nuova linea e poi trasmettere le conoscenze man mano agli altri che andavano rientrando e che nel frattempo potevano contare sulla cassa integrazione straordinaria.
Lo stabilimento avrebbe dovuto tornare a produrre auto ma di nuovo tipo, ibride ed elettriche. Il programma tuttavia non è di fatto decollato e sono sorti problemi relativi al finanziamento Invitalia. Nonostante i propositi e i programmi nessuna attività concreta ha avuto inizio. Nei giorni scorsi a Termini Imerese è arrivato anche il ministro Di Maio dopo l’ennesima protesta degli operai rimasti senza cassa integrazione con l’arrivo del 2019. Anche in quella occasione il progetto Blutec è stato al centro di critiche e diffidenze ma la delibera di una nuova cassa integrazione straordinaria è stata promessa ugualmente.
Adesso arriva la Guardia di Finanza che sequestra tutto su mandato della Procura e parla di malversazione di fondi pubblici arrestando gli amministratori Blutec di Termini. Una conclusione a fronte della quale gli operai e tutti nel territorio si chiedono se adesso è davvero finito tutto.
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