Si discute molto, in questi giorni, della sentenza emessa dal Tribunale di Palermo nel processo sulla c.d. “Trattativa Stato-mafia” e dei suoi effetti politico – sociali. Si argomenta se sia stato giuridicamente giusto celebrare il processo e di quali saranno gli effetti che potrà provocare.
Devo rappresentare che mi ha davvero stupito leggere i commenti diffusi da importanti e noti giuristi, che da sempre si sono profusi nello studio del contrasto alla criminalità mafiosa, nonché di magistrati, impegnati nello stesso processo sulla “trattativa”.
Personalmente ritengo che le sentenze, in quanto esplicazione dello Stato di diritto non possano né debbano essere oggetto di dibattito socio-politico. Le sentenze sono quelle che sono, piacciano o meno, giuste o sbagliate che siano. Esse sono e rappresentano l’affermazione del potere giudiziario dello Stato e, come tali, non possono essere oggetto di valutazione al di fuori dall’ambito che è proprio, ovvero il giudizio di appello.
Certamente di una sentenza così importante si parla, si discute nei corridoi, nei bar, per strada; che si apra, però, un dibattito tra giuristi circa la correttezza socio-politica della pronunzia giudiziaria è davvero anomalo.
Probabilmente l’epoca dei processi mediatici e dei dibattiti sui talk show, persino su fatti giudiziari, ha già superato il limite della spasmodica ricerca di audience da parte dei conduttori televisivi ed è approdata nel campo del dibattito giuridico – culturale. Ciò, però, è sicuramente inammissibile, poiché una cosa è discutere tra amici in contesti informali delle questioni giudiziarie che riguardano il Paese, altro è sentire e leggere di giuristi, di magistrati e di avvocati (i quali per la verità, si sono limitati a dichiarare che interporranno appello) che, al di fuori dai tribunali, si profondono in argomentazioni meta giuridiche aventi l’unico effetto di far perdere credibilità al sistema giudiziario.