Stretti in una morsa a quattro gambe fra legge, blitz mediatici, coscienza etica e politica. Così si trovano, volenti o nolenti, i giudici di Palermo chiamati a pronunciarsi sulle accuse mosse a Matteo Salvini, Vice Premier e Ministro dell’interno del tempo dei fatti, Vice Premier e Ministro delle infrastrutture e dei trasporti oggi. il processo, ormai lo sanno anche i bambini, è quello per il trattenimento dei migranti, 147 persone rimaste a bordo della nave della Ong Open Arms nel 2019 per 19 giorni. L’accusa è di sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio, la richiesta di condanna è di sei anni.

La decisione più difficile

Per legge i giudici non dovrebbero farsi condizionare da fattori esterni come la pressione della piazza, la guerra mediatica che si è sviluppata fra gazebo leghisti da un ,lato e proteste delle Ong dall’altro. E non dovrebbero farsi condizionare neanche dalle conseguenze politiche di una scelta piuttosto che di un’altra. Però in Italia la legge non è “assoluta” nel senso che lascia sempre spazio ad interpretazioni che spettano ai giudicanti. Giudicanti che devono esprimersi secondo coscienza e “libero convincimento”.

Le tensioni e le pressioni

Ma i giudici sono esseri umani come tutti noi e non farsi tirare per la giacca non è cosa semplice. Lo diciamo nel senso più “puro” e umanamente naturale. Un giudice ha un suon convincimento che ha sempre conseguenze e refluenze di natura politica. C’è, insomma, una impostazione culturale sulla base della quale ognuno di noi ha impostato la propria esistenza e alla quale si sente legato moralmente. Vale per me giornalista, nonostante cerchi di non portarlo mai nei miei racconti di cronaca (ma nei fondi sì’, quella è una opinione chiara) ma vale anche per i giudici come per chiunque altro.

La politica

Per quanto i giudicanti resisteranno certamente alle pressioni che emergono dai gazebo leghisti, dalle direzioni del partito, dalle proteste di piazza e dai report delle Ong (nonostante siano state ammesse quasi in 30 come parti civili), non potranno non tenere conto delle conseguenze politiche della loro decisione, che vada in un senso o nell’altro. Condannare o assolvere segnerà inevitabilmente una escalation dello scontro fra governo e magistratura o un elemento calmierante.

Condanna come sfida

Condannare Matteo Salvini (a prescindere dalle valutazioni giuridiche) per il governo suonerà come la sfida finale e offrirà il fianco ad una accelerazione della riforma della giustizia in un clima teso e di probabile scontro. Una cosa che non conviene probabilmente a nessuno, ne politica ne magistratura, ma più invisa alla magistratura che alla politica di governo. E che in magistratura ci sia una corrente che ha voglia di spegnere il conflitto e trattare è evidente. Lo dimostrano i casi Roma (Albania) e Catania. Il Tribunale di roma ha sì bocciato il trattenimento dei migranti nei centri albanesi ma lo ha fatto, in seconda battuta, con una formula giuridica che manda tutto davanti alla Corte Costituzionale, spegnendo lo scontro diretto. A Catania, invece, la giudice attivista, la Apostolico, ha visto accettare all’unanimità (o quasi, un solo astenuto) le sue dimissioni  dalla magistratura legate a motivi personali ma giunte dopo lo scontro che ha seguito le sue decisioni pro migranti e le immagini della sua partecipazione alle proteste al porto di Catania.

D’altra parte c’è una fazione che invece vuole lo scontro. che fa salire la tensione con denunce di minacce e parla con le decisioni giurisdizionali spesso al limite dell’interpretazione di legge ma mai fuori dai confini concessi al magistrato (o quasi).

Assoluzione come resa

Se una condanna può essere interpretata come sfida, però, una assoluzione può essere interpretata come resa. Almeno questo pensa quella corrente di magistratura che continua a lanciarle le sfide ritenendosi non potere parallelo ma potere superiore a quello legislativo. Un bel tema da affrontare, una vicenda nella quale i giudicanti possono appellarsi solo alla legge e ad una “non” interpretazione ma applicazione rigorosa. Dovranno scrivere motivazioni “blindate” perché quale che sia la decisione qualcuno gliene chiederà conto dentro la magistratura stessa (non certo fuori dove i giudici italiani sono immuni da tutto e tutti). Insomma i primi a cui dare spiegazioni saranno i colleghi e non è poco se in quell’ambiente poi devi vivere ogni giorno

 

 

Articoli correlati