Da questa notte campeggia davanti al tribunale di Palermo uno striscione in segno di protesta contro la sentenza sul caso del promoter e delle molestie alle modelle. Un pronunciamento che non convince l’associazione “Non una di meno” che rivendica l’iniziativa che è contestualizzata “contro la violenza dei e nei tribunali”.
Il caso
Lo striscione recita: “Ci vogliamo vivɜ e liberɜ!”. Il riferimento è alla notizia appresa lo scorso 2 aprile riguardo alla revoca di misura cautelare nei confronti di Salvatore Luca Longo. L’imprenditore palermitano finito agli arresti domiciliari nel 2020. I giudici della seconda sezione del tribunale hanno deliberato che sia sufficiente l’interdizione per un anno dall’attività imprenditoriale. Contestualmente il divieto di avvicinamento ad alcune delle donne che lo avevano denunciato per abusi e stalking. Longo è accusato, infatti, di aver reclutato modelle e promoter attraverso la sua attività imprenditoriale per poi costringere alcune di loro ad avere rapporti sessuali con lui. Le modelle che riuscivano a sottrarsi alla violenza fisica o cercavano di interrompere il rapporto lavorativo subivano molestie.
Non solo repressione
“Ci piacerebbe scrivere – si legge in una nota dell’associazione – che siamo sorprese da questa notizia ma in realtà non lo siamo affatto. Le problematiche legate agli sviluppi della suddetta vicenda giudiziaria sono diverse, ed evidenziano e confermano che il sistema non funziona. In primo luogo chi denuncia la violenza di genere subisce il vero processo dentro i tribunali e sui giornali. Il dover ripercorrere più e più volte i fatti per dimostrarne la veridicità e la narrazione tossica che ne fanno i media sono ulteriori elementi di violenza che chi denuncia deve subire. Riteniamo, inoltre, impossibile che si possa affrontare la violenza di genere in termini esclusivamente repressivi e non anche attraverso un processo di trasformazione culturale e sociale”.
Di nuovo in libertà
Secondo gli esponenti dell’associazione Longo, come tanti che agiscono violenza di genere, “non ha mai preso consapevolezza delle sue azioni”. “Anche dopo 2 anni di arresti domiciliari – scrivono -. Adesso, di nuovo in libertà, sebbene non possa più avvicinarsi alle donne che si sono costituite parte civile, può farlo con altre. La violenza di genere non è un raptus di follia ma è sistemica e strutturale, è presente in tutti gli ambiti della nostra vita e in tutte le istituzioni di questo sistema di cui i tribunali sono parte”.
La risposta delle istituzioni
L’associazione “Non una di meno” chiede una risposta delle istituzioni, dello Stato e della giustizia soprattutto. “A chi ci chiede costantemente di denunciare molestie e più in generale episodi di violenza – si legge sempre nella nota -. Noi continuiamo a rispondere che anche i tribunali, questure e le istituzioni tutte sono luoghi in cui si materializza la violenza machista e patriarcale. Lo Stato reprime aspramente solo secondo i suoi interessi ed è chiaro che questo modo di fare giustizia non ci appartiene. La lotta al patriarcato non possiamo delegarla allo Stato, ma dobbiamo essere noi, attraverso nuove pratiche, a costruire una giustizia che sia transfemminista. Non ci servono le vostre condanne, ci vogliamo vivɜ e liberɜ!”.
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