Il giudice monocratico di Palermo Nicosia ha condannato gli ex vertici di Fincantieri Palermo Antonino Cipponeri e Giuseppe Cortesi a 2 anni, 8 mesi e 3 anni ciascuno di carcere per omicidio colposo plurimo. Non avrebbero adottato le cautele previste dalla legge per le lavorazioni dell’amianto, provocando la morte di 21 operai. Alcuni capi di imputazione sono stati dichiarati prescritti.
Al processo si sono costituiti parte civile i familiari delle vittime, difesi dall’avvocato Fabio Lanfranca, Salvatore Cacioppo e Serena Romano, l’Inail, la Fiom e la Camera del Lavoro.
All’Inail sono stati riconosciuti complessivamente 500mila a titolo di provvisionale immediatamente esecutiva, 10 mila euro sono stati riconosciuti a Fiom e Camera del Lavoro. I familiari delle vittime invece dovranno adire il giudice civile per i risarcimenti. Quello che si è concluso a Palermo è uno dei tanti processi agli ex vertici di Fincantieri Palermo ritenuti responsabili, del decesso, negli anni, di centinaia di operai ammalatisi di mesotelioma pleurico e asbestosi per il contatto con le fibre di amianto.
Ad inizio marzo, il giudice del Tribunale di Roma, Francesca Vincenzi, ha condannato Ferrovie dello Stato al risarcimento di 300 mila euro alla famiglia di un macchinista di Palermo morto nel 2015 di mesotelioma per esposizione alla fibra killer.
L’uomo aveva lavorato nelle FS per 30 anni, dal 1967 al 1996, come macchinista, sempre esposto all’amianto senza dispositivi di protezione. Prima presso il deposito locomotive di Catania, poi in quello di Palermo e Caltanissetta. Per qualche mese fu addetto alla conduzione di treni in Sicilia. In ultimo, infine, nel deposito locomotive di San Lorenzo a Roma.
Nella sentenza il magistrato richiama l’onere, per il datore di lavoro, di provare a sua discolpa, “di aver adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo d’insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all’introduzione di specifiche norme per il trattamento dei materiali contenenti amianto”. Il riferimento è alla Legge 257/1992 che mette al bando la fibra killer. Spiega anche che la presenza di amianto nell’ambiente di lavoro dell’uomo emerge dai documenti presentati nel ricorso. La stessa Rfi l’ha confermata nelle sue memorie difensive.
Il giudice sottolinea anche che non si tratta di “una piccola impresa che galleggia nel turbinio di leggi da cui trarre indicazioni comportamentali, ma di una grande realtà aziendale, ‘parallela’, per i servizi sanitari, allo Stato”. Dotata anche “di un organismo ad hoc, assistito da competenze scientifiche, deputate in primo luogo ad assicurare e garantire la salute dei ferrovieri” – e sottolinea che l’organizzazione sanitaria “si è dimostrata inadeguata e/o difettosa … nel rivelare e segnalare tempestivamente al vertice gestionale il serio e non ipotetico pericolo incombente costituito dalle fibre di amianto diffuse nel materiale rotabile, suggerendo rimedi che la comunità scientifica internazionale aveva ormai allo studio”.