Ricevono la ‘certificazione’ della Cassazione le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Chiarello che, con le sue deposizioni iniziate nel 2015, ha consentito di individuare i responsabili e il mandante dell’agguato cruento che portò alla morte l’avvocato penalista, ed ex parlamentare di Alleanza nazionale, Vincenzo Fragalà aggredito a Palermo con calci, pugni e bastonate, la sera del 23 febbraio 2010 e morto dopo tre giorni di agonia.
La Suprema Corte, infatti, ha respinto il ricorso con il quale Antonino Abbate, indicato come colui che aveva “diretto le azioni del gruppo che aveva ucciso la vittima” su richiesta del capoclan mafioso Gregorio Di Giovanni, contestava l’attendibilità di Chiarello e chiedeva di essere scarcerato. Il pestaggio – scrive la Cassazione – era “stato chiesto da molto tempo ai danni dell’avvocato Fragalà, accusato di essere persona che teneva poco riserbo su circostanze processuali” ma l’aggressione “era andata oltre il ‘mandato’, generando le ire dell’Arcuri”, mafioso di Porta Nuova che alla presenza del Chiarello aveva chiesto a Salvatore Ingrassia, altro affiliato a Cosa Nostra, di far eseguire l’aggressione.
Il processo a killer e mandanti – non Di Giovanni contro il quale non sono state raccolte prove – è in corso a Palermo, la prossima udienza è l’otto febbraio. A ridurre il penalista in condizioni disperate, furono Ingrassia, Antonino Siragusa, Francesco Castronovo e Paolo Cocco, Abbate li portò sul luogo dell’agguato e indicò la vittima, poi dimenticò di portare via il bastone usato per colpire. Ad avviso degli ‘ermellini’, il Tribunale del riesame di Palermo con l’ordinanza dello scorso 13 marzo ha fatto bene a confermare il carcere per il ‘basista’ con una motivazione “dotata di logica, coerenza e linearità argomentativa”. In proposito, la Cassazione rileva che il riesame ha fondato “le sue conclusioni proprio sul raffronto tra le dichiarazioni rese dal Chiarello ed i riscontri acquisiti in termini di tabulati telefonici, contatti tra le persone indicate, luoghi di presenza delle stesse e raggruppamento del gruppo di picchiatori al momento dell’aggressione”.
Su questi elementi, sottolinea il verdetto 5009 della Prima sezione penale, il riesame ha evidenziato che “effettivamente le persone indicate come esecutori materiali dell’omicidio si trovavano tutte nel medesimo luogo (che era appunto la zona dell’aggressione) al momento del crimine; e sulla base di quei dati viene rilevato come, prima dell’aggressione, proprio gli individui indicati erano riuniti; e sulla base dei medesimi elementi si ricavava che uno di essi, il Siragusa, telefonava all’Abbate scusandosi del ritardo rispetto al momento della riunione e assicurandolo che era prossimo a giungere”. Per la Suprema Corte, si tratta di “una successione di deduzioni che non mostra alcuna illogicità nè abnormità ricostruttiva”, e il riesame ha illustrato senza pecca le ragioni “per le quali reputa attendibile la narrazione del Chiarello” e spiega “adeguatamente” anche le ragioni per le quali per via della sua “antica amicizia” con Castronovo, aveva inizialmente fornito una versione reticente.
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