Assolti i 13 imputati nigeriani a cui era stato contestato il reato di associazione mafiosa (416 bis). Il presidente della quarta sezione penale del tribunale di Palermo ed i giudici Daniela Vascellaro e Giangaspare Camerini hanno messo nero su bianco.
Tredici le assoluzioni a Ehigiator Osabuohien, Omo Charles, Aleh Victor, Atuke Evans, Austin Solomon V, Eboigbe Paul, Brown Richard, Ostin Eric, Emma Ekele, Usobor Omoniyi (alias Usobor Ommoniyi o Usobor Omoniyi Saturday), Esene Innocence, Patrick Bertram e Sandra Ekinadoese. A loro cui era stato contestato il 416 bis, lo stesso reato attribuito agli affiliati di Cosa nostra, disponendo così la libertà per chi era detenuto e la fine dell’applicazione dell’obbligo e del divieto di dimora e di presentazione alla polizia giudiziaria.
Per i soli Aleh Victor e Austin Solomon è scattata la condanna a un anno e sei mesi di carcere per spaccio di droga e a otto mesi per Ostin Eric per una rapina con violenza e minacce.
Il processo è frutto di un’operazione che risale a quattro anni fa dalla squadra mobile, su ordine della Dda. Le indagini erano partite dopo la spedizione punitiva contro un nigeriano, picchiato da alcuni connazionali in via delle Case Nuove, a Ballarò. Violenze, sfruttamento della prostituzione e pratiche tribali feroci sarebbero state messe a segno dalla confraternita chiamata Eiye, un gruppo della mafia nigeriana contrapposto alle altre consorterie battezzate Black Axe, Vikings, Maphite e Arubaga.
Uno degli amici del ferito aveva raccontato agli agenti che l’aggressione era stata organizzata proprio da Eiye. Da quel momento era cominciata la collaborazione: avevano raccontato di un’organizzazione verticistica, al pari della mafia, che aveva rigorose regole interne, in cui vigeva l’omertà, il rispetto e l’obbedienza alle direttive dei vertici, punizioni per chi sgarrava e il versamento, obbligatorio e periodico, di somme di denaro per sostenere le esigenze della casa madre nigeriana.
Una ricostruzione che è stata smontata pezzo per pezzo dai giudici: “Non c’è alcun dubbio – scrivono nella sentenza di primo grado – sull’esistenza di un’associazione radicata territorialmente, costituita tra soggetti che hanno un’identità culturale e tribale stabilmente organizzata in un sistema gerarchico, con suddivisioni di ruoli, segni di riconoscimento, riti, attività e relazioni”.
Ma, la complessa e vasta istruttoria dibattimentale “non ha definito con i caratteri propri della fattispecie di tipo mafioso, né quelli di un’associazione per delinquere semplice. Non solo ne è mancata la prova, ma l’intero complesso rappresentativo offerto a supporto della tesi accusatoria ha dimostrato la sua infondatezza.
In poche parole un castello di carta senza alcun riscontro anche perché i cosiddetti pentiti erano stati valutati come inattendibili dalla Corte di Assise di primo e secondo grado con le sentenze confermate dalla Cassazione.
Inoltre “la narrazione (da parte dei presunti pentiti, ndr) confusa dei fatti descritti in modo del tutto impreciso, di cui non è chiara la modalità della loro conoscenza, alla fine attiene sempre alle dinamiche interne degli Eyie o, in ogni caso, sminuisce – piuttosto che riscontrarla – la tesi accusatoria”.
Non c’era nemmeno omertà perché il “soggetto offeso ogni qualvolta veniva fatto oggetto degli atteggiamenti aggressivi da parte di indefiniti membri Eiye, si rivolgeva alle forze dell’ordine», una reazione che – secondo la Corte – non sarebbe certo «tipica di chi vive in una condizione di assoggettamento che induce all’omertà”.
E pure sulla prostituzione “è mancata la prova di un collegamento funzionale, al di là di nebulose e scarne affermazioni sulla possibilità di agevolazione nella tratta di donne da iniziare alla prostituzione, in concreto smentita dall’assenza di casi individuati di gestione e sfruttamento da parte dell’associazione”.
Anzi l’unico episodio emerso, descritto da una teste che aveva riferito che la sua famiglia in Nigeria aveva ricevuto minacce per costringerla a prostituirsi, sarebbe avvenuto “a Torino, ovvero dove è stata giudizialmente riconosciuta la tipologia mafiosa della cellula del cult Eiye”.
In definitiva nessuna rilevanza “può essere data alle definizioni di mafiosità”, è la conclusione dei giudici. Per questo motivo gli imputati – difesi dagli avvocati Angelo Raneli, Giuseppina Scrudato, Mariangela Spadafora, Giuseppe La Barbera, Cinzia Pecoraro, Giovanni D’Acquisto, Giuseppe Orlando, Antonio Pecoraro, Luigi Sambito, Daniel Russo e Salvatore Mirabile – sono stati assolti dal reato di associazione mafiosa.