Proseguono le indagini sull’omicidio allo Sperone costato la vita a Giancarlo Romano e al ferimento di Alessio Salvo Caruso nel pomeriggio di fuoco di martedì scorso.
Pare che ci sarebbero dei testimoni che avrebbero raccontato che più di due persone avrebbero preso parte alla spedizione punitiva che ha scatenato poi la catena di violenza sfociata nel sangue. È dunque caccia anche ad altri uomini che potrebbero avere avuto un ruolo nella sparatoria finita con l’uccisione di Romano.
Padre e figlio in carcere
Al momento in carcere ci sono padre e figlio, Camillo Mira, 55 anni, indicato come autore materiale dell’omicidio di Giancarlo Romano, e Antonio Mira, 20 anni, entrambi in stato di fermo. Oggi per i due dovrebbe arrivare l’eventuale convalida.
Alla spedizione punitiva avrebbero preso parte sei persone a bordo di tre moto e sei persone in tutto che erano insieme a Romano, 37 anni, e Alessio Salvo Caruso, 29 anni, che oramai da lunedì scorso lotta tra la vita e la morte all’ospedale Buccheri La Ferla.
La sparatoria
Questo gruppetto avrebbe dato vita alla prima sparatoria, quella che poi ha portato alla controffensiva poche decine di minuti dopo davanti al centro scommesse. Non filtrano altri particolari ma senza dubbio, se fosse attendibile questa indicazione, l’indagine potrebbe prendere un’altra piega e soprattutto potrebbe far emergere altri decisivi sviluppi nel contesto della ricostruzione dei fatti.
Le ipotesi
Al momento chiaramente si parla di ipotesi, seppur molto accreditate, ma nulla di più dal momento che il fatto è accaduto nella prima serata di lunedì scorso. Un lasso di tempo troppo breve per poter far dire agli inquirenti di aver cristallizzato completamente la vicenda. Si continua a battere la pista del delitto di mafia, del regolamento di conti tra «due gruppi criminali», come li hanno definiti gli stessi agenti, per il controllo del business delle scommesse clandestine. I fatti sembrano essere stati comunque ricostruiti in modo abbastanza fedele, i protagonisti invece potrebbe essere molti di più. Si è trattato di uno sgarro collegato al mondo delle scommesse abusive sportive on line, da sempre un settore controllato dalla mafia. L’agenzia è quella di ubicata in un garage di via XXVII Maggio gestita da Pietro Mira, figlio di Camillo e fratello di Antonio. Qui si sarebbe consumato il primo raid violento con gli emissari di Caruso, anche lui indagato anche se per tentato omicidio, che si presentano e chiedono a Pietro Mira di saldare un debito da 3 mila euro. Lui però prende tempo e dice che quei soldi non ce li ha in agenzia perché avrebbe pagato le vincite ad alcuni scommettitori. Il «no» finisce per far scomodare Caruso che si presenta personalmente e con un tirapugni colpisce Pietro Mira.
La reazione
Gesto che avrebbe fatto scatenare la reazione di Camillo e Antonio Mira i quali, dopo aver saputo quel che era accaduto, si mettono su un’auto e vanno in un altro centro scommesse in corso dei Mille dove sanno che avrebbero trovato Caruso e Romano. Parte la prima sparatoria dove rimangono feriti lo stesso Camillo Mira, colpito d’anticipo da Caruso, e un cliente in modo lieve. Ne nasce un inseguimento con Caruso a mettersi alla guida di una macchina: fa salire il compare Romano, gestore di un tabacchino, e si fionda ad intercettare il motorino con in sella i due Mira.
La seconda sparatoria si consuma allo Sperone e nel conflitto a fuoco muore Romano e viene raggiunto da tre colpi all’addome Caruso. Chiaramente se le vicende delle due sparatorie, frutto di un regolamento di conti, appaiono chiare ci sono invece da chiarire per bene i contorni del fatto. Dietro il delitto c’è solo la questione del debito oppure ci sono vecchie ruggini di opposte fazioni interessate al controllo del territorio? Ipotesi quest’ultima che appare tutt’altro che remota. E se venissero identificati questi presunti complici dei Mira gli orizzonti investigativi potrebbero fare breccia su altri contesti che comunque sembrano tutti convergere verso il mondo della criminalità e del controllo dei mercati di spaccio e delle scommesse.
Massima allerta
Intanto c’è massima allerta in questura, commissariati e caserme dopo l’omicidio dello Sperone. Le modalità plateali sono proprio l’aspetto che viene considerato maggiormente pericoloso. Si è di fronte a gruppi criminali, si parla di due fazioni (ma su questo ancora le ricostruzioni investigative sono in corso, ndr) che non avrebbero paura a fronteggiarsi anche alla luce del sole. Di fondo nessuna strategia sopraffina, metodologia che oramai sembra non far più parte del modus operandi degli attuali capi delle varie organizzazioni criminali cittadine.
Proprio per questo gli inquirenti non escludono che possa covare dalle ceneri della pistola ancora fumante di Camillo Mira una possibile ritorsione. Un’ulteriore spedizione punitiva potrebbe essere stata messa in conto dalla fazione vicina alla vittima e al suo compare ancora in gravi condizioni all’ospedale. La sfacciataggine di aver sparato nel pomeriggio e in una zona centralissima della città fa presumere che si potrebbe essere di fronte a schegge impazzite, personaggi che non temono nulla e proprio per questo soggetti ritenuti ancor più pericolosi. Uomini in buona sostanza dal grilletto facile, dalla tendenza alla violenza senza troppi fronzoli. Ma soprattutto in grado di valicare qualsiasi confine del buon senso e proprio per questo di dare vita anche a reazioni spropositate e fuori controllo.
Al momento non sembrano esserci concreti segnali di una possibile nuova spedizione di qualche gruppo organizzato, ma l’eventualità non appare nemmeno totalmente da scartare. Il quartiere dello Sperone storicamente è territorio dove c’è sempre stato un saldo controllo delle piazze di spaccio. Proprio questo potrebbe essere il reale motivo del raid di sangue, il debito dell’agenzia scommesse dei Mira in realtà sarebbe solo la scintilla sfociata nella sparatoria. La recente operazione antidroga «Nemesi» proprio nella zona dello Sperone è servita a ricostruire l’organigramma dell’associazione, con un vertice che gestiva il rifornimento, le strategie di spaccio e raccoglieva i proventi dell’attività.
A quell’epoca, parliamo di tre anni fa, ad operare c’erano tre distinte compagini criminali, ognuna con a capo una famiglia che organizzava autonomamente la propria «piazza di spaccio» e impartiva precise direttive ai propri pusher. Ci furono ben 58 indagati, molti dei quali finiti in carcere. Non appare dunque impossibile pensare che da allora chi era al vertice e reggeva le «teste calde» non sia più stato rimpiazzato. Di conseguenza ci potrebbe essere stato qualche «sconfinamento», qualche dose di troppo venduta in strade che non erano di competenza di determinati pusher. Da qui ad arrivare a premere il grilletto la strada potrebbe essere stata breve.
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