Con il nuovo DPCM del 26 aprile, che di fatto avvia la cosiddetta “fase 2” del piano di contenimento dell’emergenza sanitaria da Covid-19, quello del lavoro rimane uno dei settori assai delicati riguardo non soltanto alle evidenti refluenze sul PIL e sul ripristino di una pur graduale normalità nel Paese, ma altresì con i relativi profili di rischio/sicurezza dei vari soggetti coinvolti, a seconda dei contesti produttivi di riferimento.
Ogni attività lavorativa, infatti, nel produrre ricchezza per il Paese e nell’assicurare un servizio agli utenti, comporta d’altronde un certo profilo di rischio a carico di chi eroga l’attività medesima, aspetto che va prudentemente valutato, di conseguenza, proprio a garanzia del lavoratore e della salute collettiva. Una circostanza, questa, oltretutto ben nota all’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.
Già in uno studio sottoposto al legislatore nazionale per le valutazioni di ordine politico, l’Inail aveva in proposito evidenziato tali aspetti nell’apposito “Documento tecnico sulla possibile rimodulazione delle misure di contenimento del contagio da SARS-CoV-2 nei luoghi di lavoro e strategie di prevenzione”.
Si tratta, in altri termini di una pubblicazione, approvata dal Comitato Tecnico Scientifico istituito presso la Protezione Civile, al quale l’Inail partecipa con un suo rappresentante, che è il risultato di un lavoro di ricerca condotto dallo stesso Istituto, anche in qualità di organo tecnico scientifico del Servizio Sanitario Nazionale, e a cui il recente DPCM conferma le relative funzioni ispettive unitamente all’Agenza unica per le ispezioni del lavoro (Ispettorato Nazionale del Lavoro).
Nel richiamato Documento, in particolare, il rischio connesso a ciascuna attività è stato classificato secondo tre parametri: l’esposizione, ovvero la probabilità di entrare in contatto con fonti di contagio (è per esempio il caso del settore sanitario o l’ambito gestionale di trattamento dei rifiuti speciali); la prossimità (taluni lavori, infatti, impongono un minore distanziamento sociale come potrebbe avvenire, ad esempio, per specifiche mansioni in catene di montaggio) e, infine, l’aggregazione (vale a dire la relazione con altri soggetti, oltre ai propri colleghi, come potrebbe essere il caso, ad esempio, del settore della ristorazione, del commercio al dettaglio come pure della scuola).
Graduato ciascun parametro secondo una metodologia di valutazione integrata (dalla più bassa probabilità alla più alta), il risultato finale ha attribuito dunque un punteggio per ciascun comparto produttivo che, per esempio, vede il settore agricolo o delle costruzioni con rischio basso e le professioni legate al settore sanitario e di assistenza sociale, come pure (forse con maggior sorpresa) dei parrucchieri, a rischio alto. Ne è scaturita la tabella allegata all’articolo.
Nell’auspicato ritorno alla normalità, sarà inevitabile pertanto il ricorso a una strategia complessiva che, nel “convivere” con il virus, ne mitighi razionalmente la probabilità di contagio e dunque la diffusione mediante un mix di misure organizzative, di protezione e prevenzione, anche nell’ottica di possibili focolai epidemici tristemente insorti, come noto alle cronache, nel caso di diverse residenze per anziani.
Conoscere il rischio, non potrà che accrescere la consapevolezza di mitigarne la portata concreta mediante una responsabilità diffusa. Che, ad esempio, con riferimento al mondo del lavoro, ha conosciuto e, analogamente, nella prossima fase 2 non potrà che rafforzare il ricorso al lavoro agile da casa in molti strati produttivi, ridisegnando il tradizionale “workplace” in una postazione remota che si è dimostrata efficace nel preservare la continuità lavorativa e, al contempo, di contenimento dell’epidemia.
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