Le note della banda li accompagnano mentre entrano in cattedrale: nove feretri tra centinaia di mani alzate, applausi e lacrime. In cielo si liberano palloncini bianchi per ricordare le vittime più giovani della strage di Casteldaccia: Francesco, 3 anni, Rachele, un anno e il fratello Federico, il cui nome viene gridato in coro da decine di amici.
Aveva 15 anni e, prima di essere travolto dalla piena del fiume Milicia che ha portato via con sé la vita di due famiglie intere, ha cercato, invano, di salvare la sorellina, prendendola in braccio. Palermo, Santa Flavia e Bagheria gli rendono onore mentre salutano i loro morti. Migliaia di persone commosse che non sanno rassegnarsi.
E ascoltano tra i singhiozzi l’omelia del vescovo vicario, monsignor Giordano, che chiede giustizia e lancia un monito: “no all’insopportabile rimpallo di responsabilità”. Rimpallo che il governatore siciliano, Nello Musumeci, pensa di evitare in futuro con un disegno di legge contro l’abusivismo e chiedendo al Governo fondi per aiutare i sindaci a dare seguito alle ordinanze di demolizione.
Intanto la magistratura sta cercando di definire attraverso un’inchiesta per disastro colposo e omicidio colposo ancora senza indagati. Perché comprendere penalmente chi sia colpevole della strage di Casteldaccia è tutt’altro che semplice. Di certo c’è che la villetta travolta dal fiume esondato, in cui le vittime erano riunite per la festa di compleanno della piccola Rachele, era abusiva ed era stata costruita dove non avrebbe dovuto.
Che una sentenza definitiva dall’11 febbraio del 2012 aveva condannato i proprietari della casa, Antonino Pace e Concetta Scurria, a 3 mesi per abusivismo edilizio e ad abbattere l’edificio. Che né i titolari, né il Comune nel tempo hanno mai demolito la costruzione. E che le due famiglie, sterminate dalla piena, avevano affittato l’edificio per riunirsi lì durante l’estate e le vacanze.
Pace e la moglie ai funerali non c’erano. Sarebbero stati invitati a non farsi vedere, hanno raccontato alcuni presenti stretti attorno ai superstiti: Giuseppe Giordano, che nell’alluvione ha perso due figli, la moglie, due fratelli e i genitori e Luca Rughoo, rimasto vedovo e senza il figlio. Nella camera ardente allestita nella chiesa della Madonna di Lourdes a Palermo, raccontano i presenti, a rendere omaggio alle vittime e a chi si è salvato sarebbero andati anche nomi importanti del gotha mafioso di Palermo. Presenze notate da polizia e carabinieri del servizio d’ordine. Luca Rughoo, sopravvissuto perché al momento della piena era uscito con la figlia e la nipote a comprare dei dolci, è parente dell’ex boss Sergio Flamia.
La madre, Nunzia, è una cugina dell’ex capomafia di Bagheria poi passato tra i ranghi dei collaboratori di giustizia. Raccontano le indagini che sarebbe stato lui a salvare la vita a Luca dopo uno screzio con un uomo d’onore. Rughoo, che aspetta il processo d’appello dopo una condanna a 2 anni per violenza privata, potrebbe costituirsi parte civile al processo per la morte dei suoi familiari.
In prima fila accanto ai parenti, ha tentato di farsi forza. Il cognato Giuseppe Giordano non ce l’ha fatta. Sdraiato sulla bara bianca dei figli, su cui erano stati appoggiati dei peluches e la maglia del calciatore Ighuain di cui Federico era tifosissimo, è stato sempre sorretto dagli amici. All’uscita della cattedrale prima di andare a seppellire la sua famiglia ha visto i palloncini bianchi alzarsi per Federico, Rachele e per il nipotino Francesco. Mentre le bare bianche venivano sollevate in alto.
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