E’ stato presentato all’Università di Palermo, il rapporto su “Sussidiarietà e… spesa pubblica”, Rapporto sulla sussidiarietà 2014/2015.
A concludere il dibattito, cui hanno preso parte Sebastiano Bavetta e Roberto Lagalla, è stato chiamato Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà.
Lo studio di quest’anno, il nono dall’inizio nel 2006, parte dalla constatazione che uno dei principali problemi dell’economia italiana è l’eccessivo debito pubblico. Questa è la causa che impedisce di mettere in campo le azioni necessarie a stimolare la crescita. Le attuali politiche fiscali di limitazione della spesa non si sono dimostrate, infatti, sufficienti. Il Rapporto dimostra che per una famiglia di 4 persone un aumento del 10% di spesa sussidiaria verticale (cioè di spostamento di soldi pubblici dallo Stato centrale a Regioni, Provincie, Comuni) si tradurrebbe in un aumento di reddito di circa 570 euro annui.
Abbiamo chiesto a Giorgio Vittadini di approfondire alcuni temi presenti nel Rapporto proprio partendo dal principio di sussidiarietà.
Oggi, dopo il dibattito degli anni scorsi che portarono alla sua introduzione nel dettato costituzionale con l’art. 118, non si sente più parlare di sussidiarietà. Il tema è ancora rilevante o è stato confinato al dibattito in campo scientifico?
“La sussidiarietà è certamente sotto attacco feroce. Si sta diffondendo la convinzione, e il Rapporto di quest’anno lo evidenzia in modo chiaro, che basti riportare tutte le decisioni a Roma perché tornino a posto i conti dello Stato. E’ vero che ci sono stati errori delle Regioni e degli Enti locali, e bisogna quindi guardare dentro quei conti, ma generalizzare è sbagliato; infatti, ci sono tante Regioni addirittura più virtuose dello Stato centrale”.
Ma a questo dovrebbe porre un freno l’ultima riforma costituzionale?
“La riforma costituzionale parla semplicemente di “interesse prevalente centrale” ed è molto confusa rispetto a funzioni e competenze di organi importanti quali il Senato, la Conferenza Stato-Regioni, ecc”.
E la sussidiarietà orizzontale?
“E’ anch’essa sotto attacco perché gli errori di alcuni “corpi intermedi”, cooperative ed altro, hanno convinto l’opinione pubblica che debba fare tutto lo Stato. Un altro esempio è l’attacco alle banche popolari e di credito cooperativo, che operano sul territorio, e sono un esempio storico di sostegno alle iniziative di sussidiarietà orizzontale”.
Da dove ripartire, dunque?
“E’ necessaria una collaborazione concreta e fattiva tra pubblico e privato, e soprattutto il privato non profit, per affrontare i drammatici problemi di welfare del nostro Paese, anche perché, lo sappiamo bene, ci sono sempre meno soldi, e quindi c’è il rischio di far pagare ai cittadini tutto il conto della crisi”.
Dunque, bisognerebbe intervenire subito, senza attendere la fantomatica uscita dalla crisi economica?
“La crisi non si affronta con il rafforzamento dell’amministrazione pubblica centrale, già in crisi ed inefficiente per conto suo, ma con l’iniziativa per così dire “dal basso”, come avvenne per esempio in occasione dell’unificazione italiana, quando realtà sociali significative del mondo cattolico, del mondo operaio, del mondo liberale si misero insieme per dar vita ad opere sociali soprattutto nel campo dell’assistenza sanitaria, sociale, educativa ecc”.
A cosa si sta andando incontro?
“C’è il rischio di andare incontro a grandi sperequazioni sociali e a generare un sistema previdenziale che può contare solo sulla contribuzione privata”.
Quindi la scelta statalista è identificabile con una scelta di governo?
“La scelta statalista è innanzitutto una scelta culturale che affonda le sue origini sia in una destra culturalmente povera sia in una sinistra incapace di uscire da certi vecchi stereotipi centralistici”.
Per esempio?
“La scuola: la difesa della scuola statale come unica scuola pubblica è appannaggio di una vecchia sinistra di stampo sindacale che non vuole riconoscere il valore dell’autonomia e della libertà di scelta, come avviene in tutte le nazioni del mondo. Il suo reale obiettivo è la conservazione dello status quo ed è contro la promozione delle capacità e dei meriti. Basti pensare al vertiginoso numero di abbandoni (250.000 mila ragazzi l’anno, come due stadi di San Siro pieni) segno di una incapacità del sistema di rendere il primo e più importante servizio”.
Quindi questo processo non è imputabile a questo Governo?
“Trattandosi, come ho detto, di una scelta innanzitutto culturale non è imputabile in special modo a quest’ultimo governo. Il problema è che processi complessi hanno bisogno di risposte complesse e tempi lunghi, mentre il consenso voluto dalla politica impone tempi brevi. Non si possono raffazzonare risposte che privilegiano risultati a breve termine, sacrificando il lungo termine”.
Per esempio?
“Per esempio il jobs act. Si è parlato di tempo indeterminato prevalente quando si è privilegiato un rapporto di lavoro le cui garanzie durano tre anni e poi si può tornare a licenziare”.
E in tutto questo panorama che responsabilità ha la politica?
“Molta, perché la complessità dei problemi richiede innanzitutto competenza. La retorica dell’antipolitica che sta dilagando è una cosa nefasta. Prendere delle persone, qualificarle solo per il consenso che hanno dal web e poi mandarla in luoghi decisionali come il Parlamento non è una cosa seria. In Parlamento si discutono le più importanti scelte strategiche per il Paese, quali la politica industriale o quella sanitaria, le scelte di politica internazionale o in materia di pubblica istruzione. I parlamentari devono essere all’altezza di fare un assiduo e qualificato lavoro nelle Commissioni dove devono innanzitutto portare la loro capacità di leggere e interpretare i bisogni dei territori”.
Ma perché, non è più così?
“Gran parte dei deputati e senatori sono chiamati ad avallare decisioni prese spesse volte fuori dai giusti ambiti decisionali, ma soprattutto non hanno più alcuna competenza specifica da portare perché non sono più espressione del territorio. Ciò che si vuol far credere come novità, è solo semplicioneria!”
Ma è cambiato così radicalmente il Parlamento?
“Si, anche perché di pari passo è cambiata la società. Una volta si giungeva in Parlamento dopo aver percorso una trafila che veniva dalla partecipazione a assemblee elettive di livello più basso (Comuni, Province e Regioni), in cui gli eletti erano espressione di appartenenza a corpi intermedi, come sindacati, associazioni imprenditoriali, religiose, del Terzo settore, ecc. Oggi anche se c’è questa appartenenza, manca la competenza e la metodologia necessaria per fare politica. Se uno che ha fatto sempre l’imprenditore viene in un mese catapultato a Montecitorio, potrà capirne di organizzazione del lavoro, ma non certo di politica. Figuriamoci se poi è un giovane studente o un giovane disoccupato. L’improvvisazione non serve in nessuna parte, nemmeno in politica”.
Quindi questa svolta della politica fatta dalla gente e non dalle appartenenze ai partiti o alle sue correnti, non paga? Nemmeno a livello locale?
“A maggior ragione a livello locale e proprio in Sicilia è particolarmente evidente. Per esempio la quantità di assessori c. d. “tecnici” cambiati dal presidente Crocetta non pare abbia portato più qualità alla gestione della cosa pubblica. E poi non dimentichiamo un altro aspetto”.
Quale?
“L’uso della comunicazione, stile talk show, fatta più per colpire emotivamente che per informare”.
Andiamo ad un aspetto diverso. Ma la questione Meridionale esiste ancora?
“Non direi. Prima almeno esisteva come dichiarazione di principio. Dopo le politiche fallimentari degli interventi per il Mezzogiorno, non si è ancora formulata un’idea valida e percorribile. Al Meeting di Rimini, nell’incontro con il premier Renzi, avevo sollevato l’idea di pensare al Sud come al Nord del Mediterraneo. Una politica di ampio respiro che inizi con l’attirare studenti nelle nostre università meridionali, che si apra a mondi economici in espansione come quelli dell’estremo oriente, che metta in rete con adeguate infrastrutture i nostri porti che si aprono sul Mediterraneo, costituendo nei fatti un’alternativa credibile a quelli dei mari del Nord Europa”.
E per fare questo cosa ci vuole?
“Bisogna pensare in grande. Ma se non riusciamo a spendere i soldi che l’Europa destina proprio per questo scopo non abbiamo niente da dire. Ci vuole una politica di ampio respiro. Pensiamo a ciò che fece Federico Secondo ad esempio. Altrimenti il processo di emigrazione al Nord rimane l’unica possibilità. E i numeri parlano chiaro”.
Quale numero in particolare?
“Quello dell’abbandono del 30% degli iscritti alle università siciliane. I giovani giustamente preferiscono emigrare per essere pronti ad entrare nel mercato del lavoro che non sarà ormai quello dei luoghi dove sono nati e cresciuti. Senza dimenticare che in questo 30% ci sono quelli che hanno deciso di non iscriversi perché ritengono inutile “perdere” 5 anni per poi ritrovarsi a svolgere compiti e mansioni che con il titolo di studio non hanno nulla a che fare”.
Quindi il Sud rischia di andare in mano agli immigrati?
“Il punto è: cosa possono fare gli immigrati? Se mancano politiche di sviluppo economico innanzitutto con tutte le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo, il Sud non ha nulla da dire e può solo continuare a vivere di trasferimenti. Dopo le primavere arabe queste nazioni hanno grande bisogno di aprirsi all’Europa. E noi cosa offriamo? Ci vogliono programmi pensati per queste nuove generazioni che siano accattivanti, a partire dall’uso delle loro lingue, e che li rendano protagonisti del loro futuro, insieme a quello dei nostri giovani. Altrimenti continueranno a scegliere Francia o Germania. Ma se la politica in Sicilia è più preoccupata delle trivelle in mare o delle antenne del Muos, è certo che i suoi figli più giovani penseranno che sia necessario emigrare”.
Proviamo a concludere tornando da dove siamo partiti? Ma c’è ancora in Italia un tessuto sociale in grado di riappropriarsi di tutti questi temi?
“La speranza di vita in Italia è la più alta che in tutti gli altri Paesi del mondo. Vuol dire che da noi si vive meglio che altrove. Questo si deve in gran parte alla rete di sistemi sociali e solidaristici che ancora esistono, e che il presidente Mattarella ha giustamente evidenziato nel suo discorso di insediamento. La capacità di intraprendere, a livello sociale ed economico, è dunque lo specifico patrimonio dell’Italia, da cui ripartire. Qui tornano in campo solidarietà e sussidiarietà”.
C’è anche spazio per la Chiesa?
“La comunità cristiana, in senso laico, ha una grande funzione che è quella di educare agli ideali per l’uomo, oltre che quella di testimoniare una vita più umana perché cambiata dalla fede. Da questo punto di vista l’Italia, grazie a questo tipo di cultura, è messa meglio rispetto ai Paesi del Nord Europa, dove questa tradizione non esiste. Però dobbiamo ritrovare la nostra identità e quindi recuperare i nostri valori. Ma se invece si continua a dire e a far credere che quello che conta è quello da cui dobbiamo liberarci, davanti a noi si apre solo il vuoto”.
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