Presentazione, nell’Aula Magna della Facoltà Teologica di Sicilia, in corso Vittorio Emanuele, 463, per il libro “Dov’è Dio? La Fede cristiana al tempo della grande incertezza”, edizioni Piemme. Il testo raccoglie i contenuti di alcune conversazioni tra il giornalista Andrea Tornielli e don Julián Carrón, il successore di don Giussani, da 12 anni alla guida di Comunione e Liberazione. Fra gli intervenuti Massimo Naro, docente di Teologia Sistematica alla Facoltà teologica di Sicilia, Giovanbattista Tona, giudice del Tribunale di Caltanissetta e Costantino Esposito, professore ordinario di Storia della filosofia dell’Università di Bari. Modererà Salvatore Taormina, responsabile diocesano di Comunione e Liberazione.
Abbiamo chiesto al professore Costantino Esposito, anche per la sua esperienza di docente universitario in una importante università del Sud, alcune anticipazioni.
Professore, lei trascorre molte ore del suo tempo tra i giovani universitari pugliesi. A suo giudizio loro sanno rispondere alla domanda: Dov’è Dio? E, ancora meglio, lo cercano?
“Ritengo che il grande problema dei giovani di oggi, ma credo anche di ogni epoca, sia il rapporto con sé stessi e con la realtà. Da questo punto di vista il problema di Dio, più che essere l’elaborazione di un’ipotesi puramente intellettuale e astratta, emerge quasi inevitabilmente da un bisogno che nasce dall’esperienza. Come se il rapporto con sé stessi e con la realtà esigesse l’apertura di una prospettiva infinita”.
Le indagini più accreditate, come quella del professore Garelli ad esempio, evidenziano un sempre maggiore distacco dei nostri giovani dalla religione tradizionale e in generale dal fatto religioso. Eppure, andando più a fondo e non fermandosi alla superficialità del fenomeno, si scopre che i giovani di oggi vivono una profonda e talvolta sofferta domanda religiosa, non trovando risposta nella religione trasmessa dai padri? E’ così anche nella sua esperienza?
“A mio avviso queste rilevazioni sono vere e utili, ma non dicono tutto. O meglio, possono essere intese in due modi. Innanzitutto in un modo sociologico, perché effettivamente nella nostra cultura nichilismo e relativismo più che essere propugnate come posizioni ideologiche, costituiscono lo sguardo quotidiano, potremmo dire quello del “buon senso” quotidiano; e, quindi, uno può dirsi cristiano, può non avere nulla contro il Cristianesimo in sé, però – e questo è il punto – la fede non è percepita più come qualche cosa di pertinente alla vita (per usare l’espressione acuta di don Giussani), come qualche cosa che spiega la vita e che illumina l’esistenza. D’altra parte proprio queste rilevazioni pongono una grande sfida e una grande responsabilità a noi cristiani: quella di vivere innanzitutto noi, e di proporre il Cristianesimo come un incontro vivo, come un luogo in cui l’umanità di ciascuno possa venir fuori. Questi studi stanno a dire che il Cristianesimo come un insieme di regole morali o di riti o di dottrine lentamente non interesserà più nessuno”.
Proprio su questo tema, in una recente indagine svolta per conto della Diocesi di Ragusa, si riporta anche questo giudizio: “È emersa, quindi, una idea positiva della religione, ad essa è riconosciuta una funzione di sostegno per l’uomo sia nella sua quotidiana ricerca di senso sia come fonte di rassicurazione rispetto al fine vita. Anche l’immagine di Dio maggiormente condivisa descrive un Dio benevolo e carico di attributi positivi”. Questo aspetto, forse alquanto contraddittorio con quanto detto prima, emerge nella sua esperienza educativa?
“Questi due aspetti possono anche andare insieme, ma io credo che il problema non sia tanto l’immagine di Dio che hanno le persone, ma se la presenza di Dio viene intercettata o riscoperta in una realtà umana cambiata. La questione di fondo è se il modo in cui Cristo si è rivelato a noi nella vita personale e in quella della Chiesa coincide con una umanità nuova. Perché soltanto questo può ridestare un interesse dell’esistenza a Dio. Per tornare al libro e al suo titolo va detto che esso è una provocazione non sul piano teorico, astratto, ma indica da una parte una domanda che nasce dalla vita e dalle sue urgenze, dall’esperienza della bellezza come dal dolore, dall’insoddisfazione come dal fallimento: è come una domanda che nasce dalla vita. E dall’altra parte è un invito a capire se nell’esperienza, nella realtà, riconosciamo dei luoghi in cui c’è una umanità nuova che non sarebbe spiegabile solo con la capacità degli uomini, ma rimanda alla presenza del Mistero”.
Lei rileva una differenza generazionale tra i suoi studenti e i suoi colleghi che hanno magari venti o trent’anni in più?
“Anche in questo caso non si può generalizzare, però accade abbastanza spesso che una domanda che nasce dal cuore dei ragazzi, perché coincide proprio con la loro giovinezza, deve fare i conti con lo scetticismo degli adulti. Per me professore universitario nell’incontro con gli studenti si tratta non di teorizzare certi concetti della fede, quanto fare attenzione al modo in cui mi pongo nei loro confronti. La partita si gioca in quello che faccio come professore e nel modo in cui sto con loro. Può anche accadere di trasmettere contenuti, anche importanti, senza essere coinvolti, trasmettendo nozioni senza comunicare sé stessi. E invece il punto della certezza nella vita si gioca lì, in una comunicazione di sé”.
Il contesto storico e sociale in cui viviamo aiuta a trovare risposta alla domanda del libro? In un recente articolo lei ha scritto: “Forse proprio nel nostro tempo di crisi può ridiventare semplice capire che solo imbattendosi in una presenza storica particolare possiamo scoprire la verità razionale di noi e del mondo, e che questa verità non ha la fisionomia di un sistema di pensiero, ma piuttosto la novità di un incontro, come un amico che mi stia aspettando”. Può approfondire quanto ha detto?
“Il nostro tempo, contraddistinto dalla perdita di evidenza di certi valori, da una parte è drammatico, ma dall’altra parte è affascinante, perché dà la possibilità di capire gli elementi essenziali della presenza cristiana, cioè se essi reggono al confronto con la vita. Perché il problema del nostro tempo è se l’esperienza cristiana regge nel confronto, riuscendo a dare gusto alla vita. L’illuminismo credeva di poter realizzare con le forze di una ragione autonoma ed emancipatrice questo progetto, ma ha fallito nel suo intento, come nel libro è ampiamente dimostrato. Il primo test del Cristianesimo è che oggi incontrando Cristo attraverso una umanità cambiata dei suoi, cioè dei cristiani, si ridesta l’io, viene fuori tutto il desiderio e l’affezione a sé stessi. Questo è talmente inedito nella nostra cultura, che sembra impossibile. Cioè sembra che l’io sia già predeterminato in base all’aspettativa delle sue performance, soprattutto agli occhi di sé stesso, non soltanto perché la società ti guarda così. E se la performance non riesce, prevale una profonda e invincibile disistima di sé. Oggi da questo punto di vista l’io è nudo. Ecco perché il nostro è un tempo affascinante. Perché c’è la possibilità di riscoprire tutto il bisogno che ha l’io, anzi che è l’io. E solo l’incontro con un altro che lo guardi con una profonda stima, che lo può ridestare a sé stesso e al mondo”.
Nel suo precedente libro “La bellezza disarmata” Julián Carrón, a proposito del problema dell’accoglienza ai migranti scrive: “Ma noi cristiani crediamo ancora nella capacità della fede che abbiamo ricevuto di esercitare un’attrattiva su coloro che incontriamo e nel fascino vincente della sua bellezza disarmata?”. A questi uomini e a queste donne, che magari professano una religione diversa dalla nostra, cosa dire per incontrare Dio?
“Partiamo innanzitutto dal fatto che spesso loro credono in Dio forse più di noi, e che spesso la nostra mancanza di fede è uno scandalo per loro. Ma alla fine entrambi abbiamo la stessa domanda: questa fede può reggere di fronte alle sfide della vita? Che proposta incontrano oggi nell’Occidente, non solo i migranti ma i nostri stessi figli, che possa sfidare la loro libertà? Penso che poi tutto si giochi nel nostro sguardo di gratuità rispetto a questi uomini (a questi fratelli) che arrivano con i loro drammi e le loro speranze, come tanti (soprattutto in Sicilia) stanno testimoniando. Tutto il parlare sul dialogo interreligioso o sulla presunta violenza delle religioni di colpo si azzera, diventa una discussione accademica quando lo sguardo di un uomo intercetta lo sguardo di un altro uomo. E’ questo che fa la differenza”.