“Il secondo punto sul quale vorrei attirare la vostra attenzione non riguarda il problema medico del vaccino ma quello politico del green pass, che non deve essere confuso col primo, abbiamo fatto tantissimi vaccini senza che questo ci obbligasse a esibire un certificato. E’ stato detto da scienziati e da medici che il green pass non ha in sé alcun significato medico ma serve a obbligare la gente a vaccinarsi. Io credo invece che si possa e si debba dire il contrario, e cioè che il vaccino sia un mezzo per costringere la gente ad avere un green pass, cioè un dispositivo che permette di controllare e tracciare, misura che non ha precedente, i loro movimenti. I politologi sanno da tempo che le nostre società sono passate da tempo dal modello che un tempo si chiamava società di disciplina al modello delle società di controllo, società fondate su un controllo digitale virtualmente illimitato dei comportamenti individuali che divengono così quantificabili in un algoritmo. Ci stiamo ormai abituando a questi dispositivi di controllo, ma mi chiedo fino a che punto siamo disposti ad accettare che questo controllo si spinga? E’ possibile che cittadini di una società che si pretende democratica, si trovino in una situazione peggiore dei cittadini dell’Unione sovietica sotto Stalin?”.
Con queste parole, Giorgio Agamben, una della voci più autorevoli della filosofia contemporanea, è intervenuto, qualche giorno fa al Senato per dire la sua sul Decreto legge Green Pass.
Non è la prima volta che parlo di questo argomento. La riflessione del professore Agamben, purtroppo, non fa una grinza. La condivido, pur non appartenendo alla categoria di chi si è sottratto al vaccino. Le argomentazioni del filosofo si basano su un fatto plasticamente riprodotto nella struttura normativa realizzata. Per Agambem, infatti, lo Stato non si sente di assumere la responsabilità per un vaccino che non ha terminato la sua fase di sperimentazione e tuttavia, cerca di costringere con ogni mezzo i cittadini a vaccinarsi escludendoli altrimenti dalla vita sociale e ora persino dalla possibilità di lavorare. Per il filosofo si tratta di una “situazione giuridicamente e moralmente abnorme”.
Fin qui, stiamo parlando di un approccio culturale, di una normale e dotta dialettica che male non fa a nessuno. E’ il sale della nostra convivenza. Ma la cronaca ci sbatte in faccia una verità drammatica quanto orribile.
La violenza che ieri ha messo a ferro e fuoco la Capitale non è giustificabile in alcun modo. L’assalto alla sede della Cgil è una delle pagine più vergognose della storia recente del nostro Paese. Possiamo discutere fin che vogliamo ed essere a favore o contrari a un provvedimento. Ma quando c’è chi passa dalle parole ai fatti, come è successo ieri, a quel punto, come si fa a non evocare la “tolleranza zero”. Soprattutto, perché, ieri, come sempre, in prima linea si sono trovati quei poliziotti, quelle donne e quegli uomini delle forze dell’ordine, che per mantenere la sicurezza pubblica mettono a rischio la propria incolumità e le loro vite. Anche Pier Paolo Pasolini, narrando degli scontri di Valle Giulia nel 1968 romano, non ebbe dubbi nel dire da quale parte stava. Da quella dei poliziotti: a loro Pasolini dedicò una poesia.
Quel che è accaduto ieri, dal mio modesto punto di vista, non ha alcuna giustificazione. E’ stata la violenza per la violenza, al grido di riprendiamoci Roma, con tanto di evocazione del fascismo. Una strategia di attacco programmata con lucida visione criminale che avrà – oltre agli evidenti risvolti penali – una sola e inevitabile conseguenza. Costringere al silenzio anche quei dotti e saggi,tra uomini e donne, che sono contrari al green pass. Questa non è una bella notizia.
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