Quasi trenta anni fa il politologo statunitense Francis Fukuyama preconizzava la “fine della storia”. La sua tesi – successivamente ampliata, modificata e rielaborata dallo stesso teorico – possiamo sintetizzarla così, almeno per grandi linee: con la fine del blocco orientale e la primazia dell’Occidente, saremmo infine arrivati all’apice dello sviluppo socioculturale.
La diffusione delle democrazie liberali, del capitalismo e dello stile di vita occidentale avrebbero dunque rappresentato il massimo punto di evoluzione. Oltre, non ci sarebbe più nulla. Ovviamente, parliamo di una dimensione concettuale e non temporale. La storia continua e le tesi di Fukuyama fissavano, quindi, soltanto la dimensione sociale e organizzativa del genere umano.
Capisco di essere partito un po’ da lontano. Credo che quella lezione sia quanto mai attuale. L’ho capito leggendo ieri mattina un editoriale del Fatto Quotidiano a firma di Marco Travaglio. Non mi capita quasi mai di essere d’accordo con il direttore del Fatto. Ieri, sì. Questa la sua riflessione sul green pass: “Come volevasi dimostrare, l’obbligo vaccinale annunciato da Draghi il 3 settembre era una bufala: il premier sapeva benissimo che non si può fare il Tso a 4-5 milioni di persone, salvo essere il Turkmenistan, la Micronesia o la Polinesia. Così ha optato per la soluzione saudita: imporre il vaccino senza avere il coraggio di imporlo”.
Quella frase, che condivido, punto per punto ha acceso un alert nei miei pensieri. Mi sono chiesto: “ma cosa hanno in comune Turkmenistan, Micronesia e Italia?”. La risposta è arrivata semplice, semplice. Nulla se non la condivisione delle strategie anticovid. Ed allora mi è tornata in mente la tesi di Fukuyama. La fine della storia, di quella storia ovviamente, non c’è stata. Quelli che sono letteralmente scomparsi per assimilazione e omologazione sono i luoghi e le identità.
Il combinato disposto di green new deal, green pass e lotta alla pandemia ha radicalmente cambiato la percezione di ognuno di noi rispetto al luogo dove si vive e si lavora. Non siamo più abitanti di Pietraperzia o di Honolulu. Siamo cittadini in zona bianca, rossa o arancione. I danni della pandemia, ma questo lo sappiamo già, sono infinitamente maggiori, e potenzialmente ancora più nefasti, dei pur drammatici aspetti sanitari ed economici.
Questo maledetto virus ha riscritto le regole del gioco. Sta veramente cominciando una storia nuova, le cui regole sono il distanziamento sociale, l’omologazione dei comportamenti e dei consumi. In sintesi la perdita delle identità e della nostra ubicazione culturale, storica e religiosa. Ogni luogo è, quindi, è ovunque e allo stesso tempo in nessun dove, poiché ogni singola zolla del pianeta conta soltanto in quanto iscritta nella mappatura dei satelliti che controllano il contagio, la sua diffusione e la quota di vaccinazioni effettuate.
Signori, questo è metodo, E i metodi di soliti non vengono mai abbandonati alla fine delle emergenze. Esempio plastico sono le regole per viaggiare introdotte dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Quelle misure di controllo dovevano essere temporanee. Oggi le rispettiamo senza pensarci più tanto. Cosa c’è in ballo?
Cambieremo il nostro modo di vivere. E qui torniamo alla dimensione di “imperativo periferico”. Al di là delle grandi strategia nazionali ed internazionali, la vera sfida del futuro è la salvaguardia della dimensione “locale”. Immaginare che non ci sia più distinzione tra il Turkmenistan e la piana di Himera è un film dell’orrore. Usi, costumi, religioni, stili di vita e di consumo alimentare. Tutto rischia di essere frullato e omogeneizzato in nome della salvezza – presunta – della vita.
“Una norma che affermi che si deve rinunciare al bene per salvare il bene, è altrettanto falsa e contraddittoria di quella che, per proteggere la libertà, impone di rinunciare alla libertà”, così scriveva poco più di un anno fa il filosofo Giorgio Agamben nel suo saggio dedicato all’epoca del Covid “A che punto siamo”?” . Non solo la “Fine della storia”, dunque, ma anche la cancellazione di quella dimensione storica e culturale che ha fatto, di ognuno di noi, nel bene e nel male, ciò che siamo oggi.
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