“Ho avvertito il disastro in arrivo. Mi sentivo sola. Perché non mi telefona? Né lui voleva partire. Per la prima volta è partito triste. Ma aveva un senso profondo del dovere, dell’archeologia come messaggio di pace, cemento fra i popoli e le loro storie”.
Lo racconta Patrizia Valeria Li Vigni, la direttrice del Museo di Palazzo Riso moglie di Sebastiano Tusa al Corriere della Sera. Un racconto grave, pesante, dal quale emerge il rimpianto, l’amarezza, la solitudine che si avverte dopo una perdita così importante.
La notizia a Palermo è arrivata prima che la stampa venisse a conoscenza. Poco dopo la fine della messa del mattino. Nelle prime battute c’era chi aveva pensato che anche lei fosse su quell’areo. In effetti doveva esserci. Poi la notizia è arrivata all’improvviso “a casa di due amici che mi hanno un po’ costretta ad accettare l’invito a pranzo. Poi, la prima telefonata dal capo di gabinetto dell’assessorato. E poi un crescendo culminato nelle parole di una signora della Farnesina: condoglianze. Atroce. Conferma definitiva di una paura che adesso mi pare maturasse da tempo dentro di me”.
La vedova di Tusa racconta sempre al Corriere quelle sensazioni che non ti sai spiegare e che ti fanno
penare che qualcosa non va. Quegli eventi che interpreti come presagi nefasti ma ai quali non dai ascolto “Ero a Bologna pochi giorni fa con mio marito, al Mambo, il Museo d’arte moderna. Siamo entrati in contatto con i responsabili della mostra per la strage di Ustica, l’aereo Itavia precipitato nel 1980. Una rassegna toccante. E io ho detto che l’avrei portata a Palazzo Riso. Fra me e Sebastiano si rinnovò la pena, pensando agli amici perduti”.
Il riferimento è ad Angelo Imburgia, l’ex presidente dell’aeroporto di Palermo che in quella sciagura perse la moglie Marina.
Poi la mente torna al marito scomparso. lo ricorda un po’ come aveva fatto poco prima suo figlio: un combattente appassionato. Non mollava, era deciso a continuare fra musei e parchi di tutto il mondo. “Gli dicevo di rallentare. Lo scoraggiavo ad andare in Libia, nelle aree pericolose della Cirenaica. E lui tirava fuori la sua ironia: ‘Se mi sequestrano, prepara gli striscioni da appendere a piazza Politeama’. E dettava il testo: ‘Liberate il grande archeologo Tusa’. Ci ridevamo su. In questa casa dove non accadrà più”.
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