Elezioni Europee ma anche pace, tra presente, passato, futuro, intelligenza artificiale e transizione ambientale. Ma anche la capacità delle istituzioni di essere vicine ai cittadini. Totò Cuffaro presidente nazionale della Dc parla a tutto tondo in vista del voto dell’8 e 9 giugno prossimi per il rinnovo del Parlamento Europeo. I nuovi rappresentanti a Bruxelles dovranno essere in grado di portare avanti temi universali
Si fa appello allo spirito che mosse i tre padri fondatori: Robert Schuman, Konrad Adenauer, e Alcide De Gasperi. Ma di quella Europa cosa rimane oggi?
“Non è affatto vero che rimanga ben poco. Le ragioni che stavano alla base delle scelte dei padri fondatori dell’Unione europea mantengono ancora la loro decisiva importanza. Anzi, questi anni, pur con le inevitabili difficoltà frutto di storie e identità diverse delle singole nazioni dimostrano che nessuno Stato europeo da solo, può oggi affrontare le sfide economiche, sociali e ambientali che interessano tutti i Paesi del mondo. Né può da solo trovare una soluzione alle tensioni nei rapporti tra blocchi di influenza internazionale. Chi vuole meno Europa, non solo sbaglia, ma non sa guardare lontano”.
Il tema preminente e urgente è oggi quello della pace. Come intercetta il dibattito elettorale?
“Lavorare tutti per la pace, soprattutto quelli che saranno eletti. Non si può pensare di raggiungere la pace senza rendere centrale ed efficiente la diplomazia. Pensare di annientare l’avversario è pura utopia. Un’Europa più unita, capace di sviluppare una propria originale politica internazionale è fondamentale per creare un nuovo equilibrio di pace nelle relazioni fra i blocchi di alleanze. La diplomazia europea ha anche una lunga e consolidata tradizione in tale senso. In Ucraina come in Israele, come in ogni parte del mondo, tutte le guerre si possono concludere solo al tavolo della pace. Prima si raggiunge questo obiettivo prima si interrompe la catena di morti e di distruzioni”.
Ma le Istituzioni europee fanno fatica a trovare nuovi e diversi equilibri. E allora?
“Certamente molte cose vanno cambiate, a partire dai Trattati. Che vanno aggiornati. Anche il sistema del voto all’unanimità ha fatto il suo tempo, non foss’altro perché il numero degli Stati che vogliono entrare nella UE aumenta. Il principio del veto di uno Stato non è più sostenibile. Si tratta di dare attuazione a istituzioni europee a cui attribuire nuove funzioni che adesso vengono svolte dagli Stati. Serve più Stato europeo. L’allargamento europeo, già avvenuto e che avverrà, dimostra che ci vuole più attenzione alle diversità dei singoli Stati. Ma tutto ciò non può mettere in discussione il cammino percorso e gli obiettivi vantaggi raggiunti dai singoli Stati e dall’Unione in quanto tale”.
Torniamo alle origini. Cosa si deve recuperare di quella esperienza?
“Cito innanzitutto il concetto di centralità della persona, oggi in parte smarrito. La cultura europea, basata sulla centralità della persona, della sua dignità e relazionalità, e sul riconoscimento dei diritti umani, è un unicum nel panorama internazionale. Non a caso in Europa si trova il welfare più sviluppato e i servizi alla persona fanno parte della vita sociale e collettiva. In quegli anni, e dopo 5 anni di guerra mondiale, si ripartì dal dare impulso a tutte quelle forme di partecipazione della società, nel creare risposte ai bisogni delle popolazioni. Su questo tessuto di aggregazioni, comunità e corpi intermedi stava la scommessa di dare vita a un incontro fra popoli per creare un soggetto europeo capace di valorizzare il contributo di tutti. Di tutto ciò c’è urgente bisogno non solo in Europa, ma nel mondo intero. Questa prima questione ne apre un’altra altrettanto decisiva”.
Quale?
“Questa idea di persona, che caratterizza i Paesi europei, apre al tema della Sussidiarietà. Occorre promuovere e valorizzare un’idea di persona la cui natura è relazione e desiderio di bene comune. Infatti è aiuto a: riattivare il desiderio di pensare il bene degli altri, oltre che il proprio, aprendo canali di comunicazione e di ascolto e superando l’autoreferenzialità; mettere in moto il dinamismo della coesione, della fiducia, dell’iniziativa costruttiva, solidale, in tempi post ideologici; diffondere il valore del contributo di tutti, delle relazioni, della convivenza, in un’epoca di individualismo aggressivo, disintermediazione, atteggiamenti difensivi; ricercare la migliore soluzione possibile ai problemi della collettività, abilitando un coraggioso sguardo sulla complessità del reale, contro il massimalismo e l’incompetenza”.
Quale spazio può avere il principio di Sussidiarietà in una Europa preoccupata di guardare solo a sé stessa?
“L’Europa unita dei prossimi anni dovrà essere capace di promuovere una vera cultura della sussidiarietà e la partecipazione dal basso in tutti i Paesi. Lo dice l’esperienza condotta, seppur in modo altalenante, in questi anni. Quando le misure europee hanno messo in moto le forze delle diverse società, l’Europa ha ottenuto risultati migliori di quando, burocraticamente, ha applicato il sistema di direttive dall’alto”.
Può essere più preciso?
“La relazione virtuosa tra i diversi soggetti di un sistema, istituzioni, formazioni sociali e cittadini, che la cultura sussidiaria europea offre, li spinge anche a dare il loro meglio: le persone a concepirsi come “comunitarie” e non solo come individui isolati e consumatori; la società ad auto-organizzarsi, grazie al costituirsi di luoghi, aggregazioni, comunità; gli Stati a sostenere la società nel dare risposte e a intervenire laddove non emergano; l’Unione europea a fare sintesi per il benessere interno e la relazione con il resto del mondo. Nella crisi del modello neoliberista, la cultura della sussidiarietà offre gli strumenti di un nuovo umanesimo come paradigma dello sviluppo, sottolineando il valore della persona e delle sue relazioni, la collaborazione costruttiva tra Stato e società civile, promuovendo insieme sviluppo e solidarietà. Per questo non c’è sviluppo sostenibile senza sussidiarietà”.
Ci sono altri temi da rivedere o ridiscutere? Ci faccia qualche esempio
“Per esempio la globalizzazione. Fino al 2001 ha dominato la grande utopia della globalizzazione a guida occidentale. Quella che veniva chiamata globalizzazione si è presentata come una occidentalizzazione del mondo. I Paesi non occidentali erano visti come partner economici, ma venivano spinti a mutare forzatamente i loro costumi. Con l’11 settembre 2001 abbiamo fatto tre gravi errori di presunzione. Pensare di poter esportare la democrazia con le armi. Ritenere che il mito che il libero mercato avrebbe creato automaticamente lo sviluppo delle democrazie. Credere che lo sviluppo digitale avrebbe messo in crisi i regimi autoritari e sarebbe stato un patrimonio del solo Occidente”.
Ma dalla globalizzazione non si può tornare indietro. E allora?
“La globalizzazione impone il ritorno a una politica industriale che garantisca la sicurezza nel concepire le proprie catene del valore e la crescita degli investimenti in ricerca e sviluppo. L’UE dovrebbe ricorrere a nuove regole del mercato comune e alla sua difesa commerciale, quando necessario, adoperandosi costantemente per valutare e affrontare i rischi per la sicurezza economica in un contesto complesso. Serve una politica industriale comune che apra un nuovo ciclo di decisioni volte a favorire la crescita di campioni industriali europei, sviluppi investimenti che supportino le industrie innovative europee e favorisca processi di aggregazione industriale. Sono necessarie industrie e infrastrutture comuni anche per lo sviluppo di settori strategici dell’industria civile, e per questo vanno superate prevaricazioni ed egoismi nazionali”.
Vi sono percorsi che si possono già individuare in tal senso?
“Pare oggi evidente che se vogliamo tutelare la crescita delle industrie europee dobbiamo pensare a tre linee di azione: avviare una politica industriale comune che promuova le imprese strategiche del continente; ripensare le regole per facilitare l’interscambio interno; impostare una politica industriale che mitighi le disuguaglianze e ricerchi un equilibrio tra sviluppo del continente e sviluppo dei diversi territori”.
L’Europa deve saper affrontare il tema del suolo e tutela dell’ambiente. Che fare?
“La salvaguardia dell’ambiente e uno sviluppo sostenibile anche dal punto di vista ambientale rimangono un obiettivo imprescindibile e sono un punto di forza delle politiche europee. Il Green Deal europeo prevede obiettivi ambiziosi: la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990 e l’azzeramento delle emissioni di C02 entro il 2050. La possibilità che l’Europa raggiunga i suoi obiettivi risulta a oggi molto bassa. Ma attenzione! È importante che la sostenibilità non venga vista soltanto da un punto di vista ambientale, ma – come si prefiggono i decisori europei – si persegua un approccio inclusivo e consapevole delle disuguaglianze economiche e sociali. Alcuni obiettivi per rendere realistica la sostenibilità ambientale sono: garantire un percorso di transizione verso la mobilità green che prenda in considerazione molteplici soluzioni; creare un quadro normativo sinergico tra legislazione in materia di trasporti e in materia di ambiente; promuovere l’economia circolare e la simbiosi industriale nei modelli di business”.
Passiamo adesso al tema maggiormente dibattuto: quello dell’Intelligenza Artificiale
“Per mancanza di risorse economiche, l’Europa si è ritrovata indietro, rispetto a Stati Uniti e Cina, a riguardo dell’innovazione tecnologica. Occorre un piano strategico sull’IA, che non può essere lasciato alle grandi multinazionali, quindi agli interessi delle oligarchie rispetto a quelli collettivi. L’AI Act, da poco approvato dall’Europa, non è un piano strategico, ma una sua regolamentazione. Il suo obiettivo è “proteggere i diritti fondamentali, la democrazia, lo Stato di diritto e la sostenibilità ambientale dai sistemi di IA ad alto rischio, promuovendo nel contempo l’innovazione e assicurando all’Europa un ruolo guida nel settore”. La sfida aperta consiste nel promuovere gli investimenti e potenziare gli strumenti necessari per consentire alle imprese, soprattutto quelle di più piccole dimensioni, di innovare”.
Ma l’Europa ha anche di bisogno di tanta giustizia sociale. O No?
“Assolutamente sì. Economia di mercato e Stato sociale vanno costantemente coniugati con l’obiettivo di assicurare sia la competitività, sia la solidarietà, sia la coesione sociale. Ciò passa in via prioritaria assicurando l’inclusione tramite il lavoro, ma intervenendo anche con adeguate integrazioni al reddito per politiche contro la povertà e le diseguaglianze e con servizi di qualità che assicurino la presa in carico di chi ne ha bisogno. Il Pilastro europeo delle politiche sociali mira a creare uno spazio unico, dove diritti e tutele sociali delle persone siano assicurati in tutti i Paesi aderenti, favorendo la trasmissione di best practice per una crescita comune di servizi efficaci”.
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