Da anni si batte per mantenere viva la memoria del figlio e tenere alta l’attenzione sulle baronie universitarie.
Dopo lo scandalo concorsi truccati nella Università – nell’ambito del quale è coinvolta anche l’Università di Catania – Claudio Zarcone, padre di Norman, il dottorando palermitano morto suicida, scrive di nuovo al ministro Bussetti.
Ecco il testo della lettera:
“Egregio Ministro,
sono Claudio Zarcone, un tempo giornalista e uomo fra gli uomini, oggi solamente ‘anima dannata’ che cerca una giustizia fin qui non concessa dal mondo degli uomini e dalla neghittosità di uno Stato divenuto sempre più una sorta di reality show dentro il quale, però, si consumano le nostre tragedie di cittadini.
Cittadini che malgrado tutto ancora vogliono credere allo Stato, inteso come corpo unico che parte dal centro verso le sue periferie per poi risalire dalle periferie al centro. Per questo le scrivo ancora.
Uso l’avverbio “ancora” perché le ho già scritto – inascoltato – diverse volte. Le ho pure richiesto un incontro, ma lei ha sempre ignorato tale richiesta: lo so, “gli uffici che non funzionano”, “le segreterie che dimenticano di comunicare”, “il caldo africano”, “il ciaffico” e finanche le “buche di Roma”. Il campionario mi è noto. Ma oggi le scrivo usando l’indirizzo di posta elettronica del Viceministro del Miur, Lorenzo Fioramonti, perché quanto meno ho sempre ricevuto il riscontro che la mia posta fosse pervenuta ad un soggetto fisico, una persona. Tant’è…
Signor Ministro, non le racconto la mia storia volutamente, sperando che i suoi collaboratori compiano quel supplemento di comunicazione forse fin qui negligente e si informino per lei.
Da nove anni lotto da solo per la memoria di mio figlio, suicida per delegittimazione accademica e per mafia dei colletti bianchi. Da nove anni grido “mafiosi!” senza aver mai ricevuto una querela: rifletta sui probabili perché, anche alla luce dei fatti di Catania. Mio figlio, laureato con lode, intelletto finissimo, è finito come tutti gli altri figli di gente come me, non legata al malaffare universitario, in un limbo di disperazione e frustrazione, fino alla decisione finale, dalla quale è discesa la distruzione di tutta la mia famiglia.
Da nove anni aspetto che un pm mi dica qualcosa sulle indagini (ipotesi di istigazione al suicidio, ad esempio) o sulla chiusura delle stesse e da nove anni aspetto che un’eminenza grigia richieda gli atti di quel dottorato all’interno del quale mio figlio ha perduto la vita. Né Rettorato, né Miur hanno mai richiesto quei documenti per indagini interne (atto dovuto, mi pare), per poi trasmetterli alla Procura: e si sono succeduti Rettori e Ministri in nove anni. Vorrei chiederle ufficialmente – sperando stavolta in un suo cortese cenno di riscontro – cosa intenda fare per la memoria di Norman. E cosa, per arginare il fenomeno mafioso delle baronie accademiche. La prego, mi risparmi gli appelli ai nobili princìpi di legalità e trasparenza che già sono condivisi in linea teorica, mi dica piuttosto, in concreto, quali deterrenze intenda attuare contro quel sistema “paramafioso” (parole dei pm di Catania) da sempre esistente e mai combattuto veramente. Io le dirò la mia e, la prego, ci rifletta un attimo prima di considerarla una fantasiosa elucubrazione. Si dovrebbe applicare l’articolo 416 bis del Codice penale (che più giù riporterò sommariamente), perché, al di là delle parole dei pm catanesi, questo tipo di associazioni sono mafiose anche se non sparano col kalashnikov: infatti il loro modo di uccidere è di carattere morale, sociale, di legalità, di merito, di trasparenza eccetera. Le intercettazioni telefoniche hanno dell’agghiacciante, si fa riferimento allo “schiacciare” i non appartenenti a quella mafia, con linguaggio e metodo mafioso. Così, hanno schiacciato mio figlio.
Mi dica, Ministro: con riferimento ai fatti di Catania, ma anche ai precedenti in tutt’Italia, quali elementi sarebbero estranei ai dettati del 416 bis? Rileggiamolo insieme questo articolo, nella sua formulazione generale (al netto di pene e altri elementi):
Dispositivo dell’art. 416 bis Codice penale
Fonti → Codice penale → LIBRO SECONDO – Dei delitti in particolare → Titolo V – Dei delitti contro l’ordine pubblico
Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni.
Coloro che promuovono, dirigono, organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni.
L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione, del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali…
Mi dica, Ministro: ho letto bene? Vincolo associativo, assoggettamento, omertà… per realizzare vantaggi ingiusti per sé o per gli altri… E mi dica: il caso Catania (come tutti gli altri) in cosa differirebbe dai dettati del 416 bis? Non voglio tediarla ulteriormente, per tale regione mi congedo da lei risparmiandole il pistolotto sulla mia vita finita, sulla mia famiglia distrutta, sull’unicità morale e culturale di Norman, sulla giustizia negata, ma non posso esimermi dall’invitarla a questa riflessione che le chiedo. Diversamente, diciamocelo pure (glielo dico immaginando idealmente il timbro di voce di Ignazio La Russa imitato da Fiorello), continueremo a vedere ragazzi morti, in fuga se va bene, frustrati a vita. Non è più tempo di essere cool, quindi la prego, non prendiamoci per il cool”.
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