Tante cose sono cambiate nella mafia con il passare degli anni, ma non le regole di comportamento, soprattutto per Mario Marchese, l’anziano boss del mandamento palermitano di Villagrazia. Le intercettazioni contenute nell’ordinanza relativa all’inchiesta che ha portato all’arresto di 62 mafiosi a Palermo e in provincia, documentano il rispetto delle ‘norme’ del codice reso noto da Tommaso Buscetta, un paradigma agli atti del Maxi processo.
Mario Marchese, in particolare rimproverava a Gregorio Agrigento, capomafia di San Giuseppe Jato, di non rispettare la ‘consegna del silenzio’ che impone a ogni uomo d’onore a non svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né tanto meno, i segreti di Cosa nostra.
Nel corso delle indagini è emerso che il boss di Villagrazia, uomo d’onore di lunghissima militanza mafiosa, ha epresso all’amico comune e uomo d’onore Salvatore Di Blasi, la scarsa considerazione per il modo imprudente e irriguardoso che Gregorio Agrigento utilizzava per recapitare i messaggi. Un modo che doveva essere corretto.
Nello specifico, nell’intercettazione Marchese, era furibondo con Agrigento per aver inviato perfetti sconosciuti a parlare di affari di rilievo per Cosa nostra in un luogo pubblico: “Vossia è lo zio Mariano?… ho detto si… con chi ho il piacere di parlare… dice: ci manda Gregorio… lo zio Gregorio… abbiamo il mandamento nelle mani noi altri…. (ndr, ride)… noi abbiamo un appuntamento …incompr… eh… gli dici allo zio Gregorio… che lo saluto… e poi ci salutiamo….. no perchè al Parco …gli ho detto:… fermati là… non lo voglio sapere… al Parco volevamo fare che… che vuoi fare?… Gli ho detto:… vai dallo zio Gregorio e gli dici quello che ti sto dicendo io… finita!… Nel frattempo chissà come è stato… Totò Di Blasi con… con funcia i puorcu… parlo con Totò… non lo so… che dice che voleva parlarmi… dico in …incompr… avvicina da me… gli ho detto Totò f a i una
cosa… vacci…vacci ora… e vedi di stringerli… e digli che la finisca..”.
Un’altra delle vecchie regole che tra gli umoni d’onore doveva essere rispettata era l’assistenza agli associati. In occasione della morte di Gioacchino Capizzi, il figlio Pietro, chiese conferma all’anziano Vincenzo Adelfio se l’organizzazione mafiosa si sarebbe fatta carico delle spese funebri, ottenenedno risposta positiva. Gli inquirenti hanno poi appurato che Cosa nostra aveva proceduto a raccogliere 3.400 euro per il pagamento del servizio funebre, fornito da un altro appartenente al sodalizio, cioè Giovanni Messina.
Altra regola fondamentale di Cosa nostra è l’assoluto divieto per l’uomo d’onore di fare ricorso alla giustizia dello Stato. Si tratta dell’impedimento a collaborare con le Forze dell’ordine con l’unica eccezione delle denunce per i furti d’auto. Un caso in cui c’era una deroga, considerato un reato ‘stupido’ da coprire, facedno esporre inutilmente a rischi gli uomini d’onore.
Ma erano tante altre le regole del ‘codice’ che erano tenute in grande considerazione. Tra queste c’è il divieto di trasmigrazione da una “famiglia” all’altra. Il comportamento da tenere in carcere, cioè evitare atteggiamenti di aperta rivolta nei confronti dell’autorità carceraria. La necessità di tenere condotta morale apparentemente irreprensibile sul piano familiare, non ostentando relazioni extraconiugali e ovviamente astenendosi perentoriamente dall’infastidir e le donne degli altri uomini d’onore. L’obbligo della verità: quando gli uomini d’onore parlano tra loro di fatti attinenti a Cosa nostra hanno l’obbligo di non mentire e, per questo motivo, è buona regola, quando si tratta altre famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione.
Il rispetto e la devozione alle storiche regole di Cosa nostra non è bastato al vecchio boss per evitare il ritorno in carcere.