Uno spettacolo che indaga l'esistenza umana

Al Teatro Ditirammu le due opere di Harold Pinter, “Victoria Station” e “Il bicchiere della Staffa”

Il regista e attore palermitano Gigi Borruso torna sul palco del Teatro Ditirammu con uno spettacolo che indaga in maniera differente la dimensione umana. Lo spettacolo, che debutta il 6 dicembre 2019 alle ore 21:00 in prima assoluta, consta di due brevi drammi in due atti unici di Harold Pinter: Victoria Station e il bicchiere della Staffa. In “Victoria Station”, il campo di indagine è quello esistenziale, l’alienazione dell’individuo prende vita in un dialogo notturno tra due uomini qualunque, un tassista e l’addetto del radiotaxi, in una notte come tante in cui si dispiegano le architetture di una solitudine pressante.

Nel secondo atto, Il bicchiere della staffa è la denuncia politica a conquistare la scena, la rendicontazione di meccanismi di potere tipici dei regimi totalitari, la manipolazione del linguaggio, la sopraffazione fisica, finalizzata all’annientamento dell’individuo e alla sua omologazione, pena la morte. La scena asciutta ed essenziale  ̶  scene e costumi sono a cura di Valentina Console  ̶ , cala lo spettatore in uno spazio claustrofobico e alienato, come i suoi personaggi, immersi nelle gabbie delle proprie illusioni esistenziali.

La centralità del linguaggio tra pause e accelerazioni, ironia e crudeltà, è il fil rouge tra le due brevi opere teatrali. Il notturno sincopato e più riflessivo di “Victoria Station” sfuma, nel secondo atto, nei toni più calzanti e brutali de “Il bicchiere della staffa”, in uno scenario senza tempo e senza connotazioni particolari, se non quelli della lucida follia tipica dei regimi, dove il linguaggio si fa brutale e sgradevole.

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Borruso nei panni di Nicolas, che torna a vestire a trent’anni esatti dal suo esordio con la regia di Michele Perriera, darà vita a un personaggio feroce, dall’ironia nera, il gerarca di un regime qualunque in un tempo qualunque perché proprio di ogni epoca. Inghiottita nelle stanze di una violenza inaudita una giovane famiglia di trentenni con un figlio di 11 anni, che a causa della libertà che la sua età gli concede non potrà essere piegato come i genitori, e dunque sarà l’unico epurato.

“Con questo spettacolo – spiega Gigi Borruso – metto insieme due testi apparentemente distanti fra loro, Victoria Station e One for the road” (Il bicchiere della staffa). Il primo più sfuggente, surreale e ironico. Il secondo terribilmente cupo, livido e perfettamente conchiuso. In Victoria Station c’è la misteriosa tensione notturna d’un dialogo surreale fra un tassista e la sua centrale, che vorrebbe assegnargli una corsa per Victoria Station. Ma il rapporto fra controllore e controllato improvvisamente sfuma per rivelarci due solitudini terrorizzate dal silenzio. Due umanità che dipendono l’una dall’altra, dalle rispettive voci che giungono via radio.
L’altra opera, Il bicchiere della staffa, è un testo più dichiaratamente politico, un paradigma della tortura, dove un aguzzino è impegnato a piegare e disintegrare una giovane famiglia di persone pensanti”. E qui tutto è brutale, osceno, senza scampo. Ma in entrambi i testi, dentro ogni parola, corre una corrente che annuncia il deserto, che ci avverte che nessuno di noi è salvo dalla solitudine e dall’odio, dalla minaccia, dall’ossessione del controllo. Un brivido parla alle nostre pulsioni, all’ambiguità delle nostre relazioni e poi alla nostra coscienza. Occorre uno sforzo d’immaginazione per non naufragare.”

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Ad affiancare il regista e attore palermitano sul palco, Dario Frasca, e due giovani attrici, Alessandra Guagliardito e Lucrezia Orlando. Scene e costumi sono a cura della scenografa Valentina Console che da anni collabora con Borruso; luci di Vittorio Di Matteo. Una produzione Teatro Ditirammu.

Il 6 dicembre 2019 alle ore 21:00 lo spettacolo debutta in anteprima assoluta al Teatro Ditirammu di Palermo, con repliche sino al 15 dicembre.

Questo brevissimo atto unico del 1982 è uno dei lavori meno noti e rappresentati di Pinter. Una storia metropolitana e notturna, sospesa e quasi irreale. In scena un tassista, che sembra girare senza meta per la città nella sua Ford Cortina, e la voce dell’uomo della centrale, chiuso nel suo ufficio, che gli chiede di non perdere tempo e di andare subito a prendere un certo Signor Mac Rooney a Victoria Station. Ma l’autista dice di non sapere dove si trovi Victoria Station, e rivela d’avere un passeggero a bordo, una donna, e che non vuole andare da nessuna parte. Così, dopo aver circolato a lungo, dice di essersi fermato nei pressi di un parco buio, Dov’è il nostro tassista?

Chi è la donna che porta con sé? Il dialogo si dipana con il gusto per l’assurdo – che spesso vira verso una comicità raggelante –, che ben conosciamo dagli altri testi di Pinter. E diviene la metafora di una vita inespressa, densa di fragilità, desideri irrealizzati, fughe dalla realtà. I due uomini nella notte, il controllore e il tassista, ognuno chiuso nella propria solitudine, sembrano dipendere l’uno dall’altro. L’uno dalla voce dell’altro. “Non mi abbandonare, sono io il tuo uomo, l’unico di cui ti puoi fidare”, implora l’autista all’uomo della centrale quando questi sta per rivolgersi ad un altro tassista. “Sono solo, in questo miserabile e freddo ufficio e nessuno mi ama”, impreca il centralinista.

Uno dei testi forse più “politici” di Pinter, andato in scena per via prima volta nel 1984, e ispirato probabilmente alle tragiche vicende della dittatura argentina. Un testo emblematico sui rapporti di dominio, sull’uso della parola quale arma devastante, sull’impotenza delle vittime. Una breve pièce che è anche una sintesi fulminante dell’attitudine pinteriana a costruire dialoghi inquisitori e oppressivi, dove si dispiega tutta le perversione che regge la logica del dominio della nostra civiltà. Ci troviamo dinanzi all’interrogatorio che Nicolas, un uomo dei servizi o della polizia, infligge a una coppia di intellettuali trentenni e al loro bambino di sette anni.

La loro colpa, si ribadisce, è quella di “pensare”, anziché semplicemente di “vivere”. Le parole asciutte, apparentemente civili, a volte cordiali di Nicolas, si mischiano a un sadismo sottile, insostenibile, osceno. La violenza, quella fisica, avviene fuori scena. Ma, nel chiuso della stanza dove Nicolas interroga le tre vittime si palesa l’ossessione del controllo, l’annientamento dell’altro attraverso la parola, la minaccia costante della violenza che pesa sulle nostre teste e dentro le nostre anime.

Potremmo essere nell’Argentina della dittatura e dei desaparecidos, come in un qualunque altro paese autoritario dei nostri giorni o in uno di quei luoghi franchi dove i servizi di paesi civilissimi consumano il loro lavoro sporco. Ma l’opera di Pinter, non è semplicemente atto di denuncia o atto banalmente politico. È anche una profonda e spietata indagine sulle dinamiche del potere dell’uomo sull’uomo, uno squarcio sulla nostra paura dell’altro e sulla “parola” come strumento di annientamento e dominio.

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