1 maggio, festa dei lavoratori, come si diceva un tempo. Ma oggi c’è ancora da festeggiare? Si può festeggiare una cosa che manca o che scarseggia?

“C’è da festeggiare il significato e l’importanza del lavoro nella vita delle persone; più precisamente la sua dignità. Tutto il lavoro, non solo quello organizzato ma anche le sue varie forme a partire da quelle più semplici, come quello fatto a casa o quello volontario. Dunque, un momento, una giornata in cui richiamare l’attenzione di tutti sul lavoro è ancora un fatto importante. Non a caso la Chiesa ricorda in quel giorno san Giuseppe lavoratore”.

A parlare è  Mons. Filippo Santoro, Arcivescovo di Taranto e Presidente della Commissione Episcopale della CEI per i Problemi sociali del Lavoro, la Giustizia e la Pace. L’occasione per incontrare quello che è, a tutti gli effetti, il Ministro del Lavoro della Chiesa Cattolica nei giorni scorsi ha tenuto a Monreale una conferenza sul tema: “La dimensione sociale della fede nella Laudato si’ e nel Magistero di Papa Francesco”. Una occasione per affrontare i temi del lavoro in occasione proprio della festa del 1 maggio. Anche per lui c’è poco da festeggiare anche se la Chiesa richiama al diritto e alla dignità dell’uomo ogni azione

 Ma questa non è forse la solita pretesa della Chiesa di “battezzare” quello che di buono nasce dalla società?

“Questo è il giudizio superficiale che si è voluto far passare negli ultimi cento anni. Ma la Chiesa ha voluto additare in un giorno storicamente contraddistinto da manifestazioni, cortei, rivendicazioni e proteste, la figura di una persona, di un Santo, tra quelli che sono sati più “vicini” a Gesù, che richiamasse il senso del lavoro semplice, umile, e comunque ben fatto. Ed anche in un contesto in cui il lavoro manca, proporre il suo significato anche nelle forme più semplici aiuta soprattutto i ragazzi. Vedo per esempio nella mia esperienza di pastore che i giovani aiutati nel lavoro di bottega rispondono bene, si appassionano; ma anche quelli che lavorano in fabbrica, se hanno accanto qualcuno che li accompagni e li aiuta a capirne l’importanza, imparano ad amarlo ed apprezzarlo. Se sul luogo di lavoro incontri una proposta di vita anche lì si può celebrare il lavoro come fonte di realizzazione e di dignità della persona”.

E per chi è senza lavoro?
“Certo questa è una ferita nella celebrazione del 1 maggio che ci invita ad assumere una grande responsabilità proprio nei confronti di queste persone”.

Resta il fatto che il lavoro scarseggia, al nord come al sud. Che giudizio dà dell’azione del Governo?
“Il Governo dice: l’Italia sta crescendo, la disoccupazione sta diminuendo. Ma io dico che la disoccupazione giovanile al sud non sta affatto diminuendo ed è al 54,5%. Allora se l’occupazione cresce in Italia dello 0,8% e nel sud dello 0,1%, la differenza tenderà ancora ad aumentare. Ci vuole dunque una strategia specifica per il sud che abbia al centro il lavoro”.

E Lei cosa propone?
“E’ intendimento della commissione della CEI per le politiche del Lavoro di affrontare il tema del lavoro in uno specifico convegno. Noi partiamo da questo dato: una strategia specifica per il sud è necessaria non solo per il sud ma anche per il nord, perché altrimenti il nord non ha dove investire”.

Ma questo nel contesto italiano oggi sembra un’utopia.
“Forse. Ma il sud è parte nevralgica e strategica del Mediterraneo. Questo è un dato, non un’interpretazione. C’è solo da mettere in stretto rapporto le due cose: sud e Mediterraneo, con una attenzione”.

Quale?
“Quella di non fermarsi alle mere politiche occupazionali, ma di pensare in grande con iniziative in grado di coinvolgere ampi settori della società, dalla cultura all’arte, dal turismo alle infrastrutture, dall’Università alla ricerca e alla formazione. Ecco perché strategia specifica per il sud e per il Mediterraneo si devono unificare. E tutto ciò, lavoro, sviluppo e ambiente, si lega in un unicum come dice il Papa nella Laudato sì”.

Che giudizio dà del Jobs Act con cui il Governo ha cercato di intervenire?
“Il mio giudizio sta nella logica che ho appena descritto: nei fatti ha portato più vantaggi al nord che al sud, cioè ha dato frutti nelle situazioni già di per se più positive, come in certe zone del nord. In quelle con maggiori difficoltà e carenza di lavoro i risultati sono stati modesti”.

In particolare nella sua zona, Taranto, che risultati ha prodotto?
“Il Governo ha fatto un investimento considerevole, di oltre 800 milioni di euro, con l’impegno di non destinarli solo all’ILVA, ma anche al contesto in cui opera l’azienda, per esempio il centro storico di Taranto. Quando me ne hanno parlato ho posto una condizione, frutto della mia esperienza maturata in tanti anni di permanenza in Brasile: che al tavolo delle decisioni fosse presente la gente che vive ancora in quei quartieri”.

E cosa è cambiato?
“E’ cambiato il progetto e il disegno di tanti che volevano riempire la città, per esempio di alberghi. Ne è derivato un intervento volto a far in modo che gli abitanti, molti di umile estrazione, rimanessero nelle loro case. Abbiamo evitato che il centro storico, come accaduto in altre città, fosse riempito di uffici, alberghi e magari negozi, ma che non vi abitasse più nessuno, soprattutto di coloro che vi hanno risieduto fino a quel momento. Sono avvezzo a questo tipo di problemi per essere stato 27 anni come missionario “Fidei donum” in Brasile come sacerdote e poi e come Vescovo nella diocesi di Petropolis. Lì ho imparato che vuol dire dar voce alla gente e, nelle pur mutate condizioni italiane, cerco di farlo anche nella mia diocesi”.

Quindi il Governo ha lavorato bene?
“Finora il Governo ha mostrato interesse, ma adesso occorre una strategia più ampia volta a promuovere investimenti attraverso il sostegno alle aziende e di conseguenza al lavoro”.

E la Chiesa come può contribuire?

“Noi abbiamo offerto il contributo di esperienza e di metodo del “Progetto Policoro” con cui in tante parti d’Italia, Sicilia compresa, si sono avviate e sono rimaste in piedi già da tempo imprese soprattutto giovanili nei più svariati settori. Se a tutto ciò si affianca un impegno costante e finalizzato dello Stato, allora tante altre cose possono cambiare”.

Ma proprio a Taranto tutto ciò cozza con il problema dell’ambiente e della salute dei lavoratori. L’impressione che se ne ha è che le due cose non possono andare d’accordo. E proprio così?
“Proprio a Taranto stiamo tentando di dimostrare che le due cose possono essere coniugate insieme. Siamo convinti e lo chiediamo con forza e da tempo che abbiamo diritto ad entrambe: salute e lavoro. Il piano del Governo, attraverso i Commissari nominati e il concorso di tutti, devono e possono andare verso la stessa direzione, consapevoli che molto danno è stato fatto e forse in modo irreparabile, ma che al tempo stesso molto si può ancora fare. Importante è però non continuare ad aggravare un cotesto già così grave”.

Lei di recente ha visitato anche la provincia di Siracusa e la zona di Augusta. Che giudizio ne ha tratto?
“Mi pare che le due zone si assomiglino molto quanto a degrado e danno ambientale. Forse ci vogliono interventi tecnicamente diversificati perché i danni di una acciaieria sono diversi da quelli di una raffineria. Ma il livello di impegno finanziario e di solidarietà sociale deve essere lo stesso. Senza il concorso unanime di tutti i soggetti interessati, a partire dalle popolazioni del posto, non è possibile ipotizzare alcun concreto risultato”.

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