Un errore burocratico riapre una ferita: la vedova di un operaio Ilva morto di tumore riceve una chiamata per un intervento mai arrivato.
Taranto, 2 aprile 2025 – “Chiamo dall’ospedale, possiamo operare suo marito”. Quando Cristina, 42 anni, riceve questa telefonata, il cuore le si ferma. Suo marito, Antonio, ex operaio dell’Ilva di Taranto, è morto nel 2024 a soli 45 anni, stroncato da un linfoma non Hodgkin dopo una lunga battaglia contro il tumore al duodeno.
La chiamata, arrivata a un anno dal decesso, un errore burocratico che getta luce su un sistema sanitario in affanno. La storia di Antonio e Cristina, raccontata a Taranto Today, è un’odissea di ritardi, diagnosi tardive e promesse non mantenute, che culmina in una beffa crudele.
Mentre la Asl di Taranto declina ogni responsabilità, la vicenda solleva interrogativi profondi: come può un paziente in lista d’attesa per due anni essere dimenticato, anche dopo la sua morte?
L’odissea di Antonio: da operaio Ilva a vittima del sistema
Antonio aveva 43 anni quando, nel 2022, iniziò a lamentare forti dolori addominali. Ex operaio dell’Ilva, una delle acciaierie più controverse d’Italia per i suoi legami con l’inquinamento e l’aumento di tumori nella zona, Antonio era un uomo semplice, padre di due figli, che non si era mai arreso alle difficoltà. Ma i dolori non passavano.
Il medico di base, racconta Cristina, lo curò inizialmente con fermenti lattici, sottovalutando i sintomi. Solo nel marzo 2023, dopo mesi di sofferenza, Antonio si sottopose a un’ecografia addominale e a una Tac, pagate di tasca propria per un totale di 2.000 euro. I risultati furono un pugno nello stomaco: un ematologo privato confermò il sospetto di un linfoma, ma serviva una biopsia per una diagnosi definitiva.
La diagnosi tardiva: un linfoma non Hodgkin a cellule T
La strada verso la diagnosi fu un calvario. Per eseguire la biopsia era necessario un radiologo interventista, una figura non facilmente reperibile. Dopo aver speso altri soldi in visite specialistiche, Antonio e Cristina trovarono finalmente un medico a Taranto che non chiese loro un centesimo. Antonio fu ricoverato al Santissima Annunziata di Taranto, dove fu sottoposto a un intervento chirurgico per la biopsia. Due mesi dopo, a maggio 2023, arrivò la diagnosi: linfoma non Hodgkin a cellule T, una forma aggressiva di tumore al duodeno. La notizia fu devastante, ma Antonio non si arrese. Iniziò la chemioterapia presso l’Ematologia del Moscati di Taranto, dove fu seguito con professionalità e umanità. Tuttavia, la malattia era già in uno stadio avanzato.
Due anni in lista d’attesa: un intervento mai arrivato
Nonostante la diagnosi, Antonio rimase in lista d’attesa per un intervento chirurgico che avrebbe potuto alleviare le sue sofferenze o, forse, prolungare la sua vita. Passarono mesi, poi anni. La chemioterapia non bastò: nel 2024, dopo un anno di trattamenti estenuanti, Antonio morì a 45 anni, lasciando la moglie e i figli in un dolore indicibile. E come se non bastasse, un anno dopo la sua morte, una telefonata ha riportato a galla tutto il dolore.
La telefonata: “Possiamo operare suo marito”
“Ma quale intervento?” è stata la prima reazione di Cristina quando ha ricevuto la chiamata. Dall’altro capo del telefono, un sanitario le ha comunicato che c’era finalmente la possibilità di operare Antonio, come se nulla fosse accaduto. “Sì, certo. Mio marito è morto nel 2024,” ha risposto la donna, incredula e ferita. La telefonata, arrivata a un anno esatto dal decesso, non proveniva dalla Asl di Taranto, ma da un’altra azienda sanitaria pugliese dove Antonio era stato preso in carico prima di essere trasferito al Moscati. La Asl jonica, in una nota ufficiale, ha precisato: “La convocazione a un anno di distanza dal decesso per l’intervento non è stata effettuata da Asl Taranto, ma da altra azienda sanitaria”. Un errore burocratico, certo, ma per Cristina è stato come rivivere il trauma della perdita.
La risposta della Asl: chiarimenti e vicinanza
La Asl di Taranto, contattata da Cristina dopo la telefonata, ha cercato di fare chiarezza. In una nota ufficiale, l’azienda sanitaria ha spiegato che Antonio è stato preso in carico dall’Ematologia del Moscati solo in una fase avanzata della malattia, dopo essere stato seguito da un’altra struttura sanitaria pugliese. “Il paziente viene accolto, visitato e preso in carico nell’arco di pochi giorni, insieme alla Struttura complessa di Chirurgia del Santissima Annunziata,” si legge nel comunicato. La Asl sottolinea la professionalità del personale, che Cristina stessa ha lodato per “umanità e competenza,” ma non può negare il dramma dei ritardi precedenti. “La direzione sanitaria ringrazia la signora C. per i chiarimenti offerti, offrendole vicinanza e supporto per quanto accaduto e per la perdita” conclude la nota.
Il contesto: Taranto e l’eredità dell’Ilva
La storia di Antonio non può essere separata dal contesto di Taranto, una città segnata dall’eredità dell’Ilva. L’acciaieria, una delle più grandi d’Europa, è da anni al centro di polemiche per l’inquinamento e l’alto tasso di tumori tra i lavoratori e i residenti.
Antonio, che ha lavorato all’Ilva per oltre 15 anni, potrebbe essere una delle tante vittime di un disastro ambientale che continua a mietere vite. La sua morte, però, non è solo una questione di salute: è anche il simbolo di un sistema che ha fallito nel proteggerlo, sia dall’inquinamento che dalla malattia.
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