Oggi sarà inoltrata al Giudice per le Indagini Preliminari (GIP) la richiesta di convalida del fermo per Moussa Sangare, il 31enne reo confesso dell’omicidio di Sharon Verzeni, la 33enne barista uccisa a coltellate nella notte tra il 29 e 30 luglio a Terno d’Isola. L’accusa, aggravata dalla premeditazione e dai futili motivi, descrive un omicidio “senza alcun movente”, come dichiarato dalla procuratrice facente funzione di Bergamo, Maria Cristina Rota.
Cosa è emerso dalle indagini
Secondo quanto emerso dalle indagini, Sangare era uscito di casa armato di quattro coltelli “con l’intenzione di colpire”. La tragica fatalità ha visto Sharon Verzeni “nel posto sbagliato al momento sbagliato”, diventando la vittima di un atto di violenza apparentemente privo di motivazioni. Nella casa dell’assassino, i carabinieri di Bergamo hanno rinvenuto una sagoma umana di cartone utilizzata per lanciare coltelli, un particolare inquietante che getta ulteriori ombre sulla psiche dell’uomo.
Nessun legame tra vittima e assassino
Le indagini confermano che la vittima e il suo assassino non si conoscevano. L’omicidio è stato un gesto improvviso e crudele, frutto di una pianificazione priva di una motivazione comprensibile. Dopo aver ricevuto la richiesta di convalida, il GIP fisserà un’udienza, che difficilmente potrà avvenire nella giornata odierna.
Testimoni raccontano l’incontro con l’assassino
Due giovani testimoni, italiani di origine marocchina, hanno fornito una descrizione dettagliata di Moussa Sangare la notte dell’omicidio. In un’intervista a Repubblica, uno dei testimoni, un commesso di 25 anni, e l’altro, un autista di 23 anni, raccontano: “L’unico rimpianto è non aver potuto fare qualcosa per salvare Sharon. Se fossimo stati più vicini al luogo dell’omicidio, forse avremmo potuto salvarla”.
E ancora: “Era più o meno mezzanotte, eravamo a Chignolo vicino alla farmacia e davanti al cimitero dove ci siamo fermati per fare delle flessioni. A quel punto sono passati due nordafricani in bicicletta, poi un terzo. Lui ci è rimasto impresso, perché era un po’ strano. Aveva una bandana in testa e un cappellino, uno zaino e gli occhiali. Ci ha fissato a lungo e poi ci ha fatto una smorfia. Non lo avevamo mai visto prima. Abbiamo raccontato di quel ragazzo quando siamo stati chiamati in caserma. A un certo punto ci hanno fatto anche i complimenti perché ci ricordavamo tutto”.
I due si sentono “orgogliosi per essere stati utili all’identificazione dell’assassino”. “Noi abbiamo avuto la cittadinanza da ragazzini, a quindici anni. Vogliamo far riflettere che se il killer è di origini straniere, lo siamo anche noi. Forse senza la nostra testimonianza sarebbe libero. Pensiamo di aver fatto il nostro dovere”, hanno concluso.
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