“Il re del Kitsch” è la prima definizione che mi è sempre venuta in mente pensando a Jeff Koons, l’autore di opere entrate nella storia dell’arte contemporanea sia per i sentimenti contrastanti capaci di suscitare nell’immaginario collettivo (o le ami follemente o le detesti cordialmente) sia per i prezzi esorbitanti capaci di raggiungere (Rabbit, il suo iconico coniglietto, fu battuto all’asta nel 2019 per il prezzo record di 91,1 milioni di dollari).
È quindi con grande perplessità che mi sono approcciata alla mostra di Jeff Koons.
Shine di Palazzo Strozzi, a Firenze, una retrospettiva a cura del direttore Arturo Galansino e Joachim Pisarro, proseguo naturale di una serie di esposizioni dedicate ai più importanti esponenti dell’arte contemporanea. Tanto sicura (di detestarla) vi sono entrata, quanto confusa (come è possibile che questa cosa mi sia piaciuta?!) ne sono uscita. Sono quindi giunta alla conclusione che tra l’amarlo e il detestarlo vi sia un terza, conciliante, via di mezzo: capirlo.
Jeff Koons nasce nel 1955 in una piccola città della Pennsylvania da una normalissima famiglia middle-class. A differenza della credenza che un artista, per diventar tale, debba passare attraverso traumi e difficoltà da cui trarre quel pathos da infondere poi nelle proprie opere, Koons cresce amato e supportato dai genitori e vive una giovinezza piuttosto serena, senza sviluppare dunque alcun particolare risentimento nei confronti della vita.
“Serenità” è quindi una giusta parola chiave per comprendere l’arte di colui che, unendo una cultura alta a quella popolare americana, tra cianfrusaglie e citazioni alla storia dell’arte più celebrata, è riuscito a raggiungere una fama da vera e propria superstar.
Questo percorso è illustrato oggi a Palazzo Strozzi, che riunisce nelle sue severe stanze quattrocentesche 33 coloratissimi e lucentissimi capolavori provenienti dalle più importanti collezioni del mondo, perfetta sintesi e rilettura dei quarant’anni di carriera dell’artista.
La novità consiste nel tema che accomuna la scelte delle opere e che diviene titolo della mostra stessa, “Shine”, inteso non solo letteralmente come lucentezza, ma anche e soprattutto tramite il concetto filosofico di Schein, apparire, in contraddizione con quello di essere.
Per chi, come me qualche giorno fa, a questo punto si fosse perso, premettiamo che Koons è famoso per l’utilizzo di materiali lucidi, luminosi e riflettenti, come per esempio l’acciaio inossidabile colorato, protagonista camuffato di tantissime delle sue opere, capace di renderle non solo esteticamente attraenti ma, innanzitutto, inclusive.
Vedendosi riflesso nell’opera infatti, lo spettatore ne diviene parte integrante, è lui stesso ad attivarla, e tramite essa gli viene restituita un’immagine di sé sorprendente e inaspettata, che lo costringe a mettersi in discussione coinvolgendone i sensi prima ancora che la mente.
Possiamo quindi dire che Koons sia un artista democratico, non si pone dall’alto al basso verso il suo pubblico, che spesso di fronte ad opere particolarmente astruse tende, non capendole, a sentirsi inadeguato, ma si pone invece l’obiettivo di coinvolgerlo e divertirlo, scegliendo soggetti comprensibili a tutti e resi attrattivi dalle superfici riflettenti. A differenza di tanti altri infatti, Koons non vuole criticare o ironizzare il consumismo occidentale, ma rappresentarlo invece in modo giocoso e sognante, come una favola o un ricordo d’infanzia.
Nascono così pezzi iconici come il sopracitato Rabbit, considerato una delle opere più importanti del secondo Novecento, coniglietto in acciaio dall’aria al contempo rassicurante e inquietante, erotica e anche un po’ aliena; Balloon Dog, dedicato al figlio lontano, un palloncino a forma di cane in acciaio inossidabile colorato, che se non fosse per le dimensioni gigantesche sembrerebbe davvero riempito d’aria, tanto appare leggero alla vista; e ancora la serie Popeye dedicata ai gonfiabili (onnipresenti nelle piscine dei sobborghi americani), tra i quali campeggiano una surrealistica aragosta baffuta di ispirazione Duchampiana, padre artistico di Koons, e un Incredibile Hulk che è un sorprendente assemblaggio tra oggetti di materiali diversi ed esteticamente quasi inconciliabili, ovvero tra una replica in metallo di un gonfiabile e un enorme basso in ottone portato sulle spalle.
Risulta infine quasi mistica la stanza di Palazzo Strozzi dedicata alla serie Gazing Balls, riproduzioni di opere d’arte pittoriche e scultoree della classicità su cui sono meticolosamente collocate sfere perfettamente lisce di delicatissimo vetro soffiato blu, che riflettono, a differenza delle altre opere, non solo lo spettatore ma anche l’opera stessa, in un’unione di vita e arte, presente e passato, collettività e individualità.
Terminato il giro alla mostra, non si può che soffermarsi un attimo a riflettere su ciò che si è appena visto, ripensando e riconsiderando le idee con cui ci si è entrati. Koons, amato e criticato, influente e controverso, caro e pacchiano, è stato capace di ricordami e ri-insegnarmi una grande lezione, che un libro non si giudica mai dalla copertina.