Un ex pugile giapponese, dopo 46 anni nel braccio della morte e una vita distrutta, riceve 1,2 milioni di euro di risarcimento: la sua storia scuote il Giappone.
In Giappone, Iwao Hakamada, un ex pugile di 89 anni, ha vissuto un calvario che pochi possono immaginare. Arrestato nel 1966 con l’accusa di aver massacrato il suo datore di lavoro, la moglie e i due figli, Hakamada ha trascorso 46 anni nel braccio della morte, diventando il detenuto più longevo al mondo in attesa dell’esecuzione.
Prosciolto nel settembre 2024 dopo una clamorosa revisione del processo, ha ricevuto dal governo giapponese un risarcimento di 217.362.500 yen, pari a circa 1,2 milioni di euro. La cifra, calcolata al massimo previsto dalla legge nipponica – 12.500 yen (circa 77 euro) per ogni giorno di detenzione – rappresenta un tentativo di compensare un errore giudiziario che ha spezzato una vita. Ma può davvero un importo economico risarcire decenni di sofferenza?
Dall’arresto alla condanna: un caso controverso
Tutto inizia il 30 giugno 1966, a Shizuoka, quando un incendio divampa nella casa di un dirigente di una fabbrica di miso, dove Hakamada lavora come operaio dopo aver appeso i guantoni al chiodo. I corpi del manager, della moglie e dei due figli adolescenti vengono ritrovati, pugnalati a morte, e circa 200.000 yen spariscono dalla scena. Hakamada, allora 30enne ed ex pugile peso piuma con un passato di successi, diventa subito il principale sospettato. Dopo 20 giorni di interrogatori brutali – senza avvocato, con percosse e minacce, secondo quanto lui stesso denuncerà – firma una confessione. “Mi hanno costretto, mi hanno picchiato”, ribadirà per anni, ritrattando quella dichiarazione estorta. Nonostante le sue proteste, nel 1968 un tribunale lo condanna a morte con un verdetto di 2 a 1, basato su prove fragili: un pigiama macchiato di sangue e, successivamente, cinque capi d’abbigliamento insanguinati ritrovati in un serbatoio di miso 14 mesi dopo il crimine.
La battaglia per la verità
Per decenni, Hakamada vive nell’ombra della forca, rinchiuso in isolamento, con la paura costante di un’esecuzione annunciata solo poche ore prima, come vuole la prassi giapponese. La sua salvezza arriva grazie alla sorella maggiore, Hideko, oggi 91enne, che dedica la vita a dimostrare la sua innocenza. Nel 2014, un primo spiraglio: il tribunale distrettuale di Shizuoka concede una revisione del processo dopo che test del DNA dimostrano che il sangue sugli indumenti non appartiene né a Hakamada né alle vittime. Viene rilasciato, ma la procura fa appello, prolungando l’agonia legale. Solo nel 2023 la Corte Suprema ordina un nuovo processo, e il 26 settembre 2024 il giudice Koshi Kunii pronuncia la sentenza storica: “Le prove sono state fabbricate. Gli interrogatori erano disumani, volti a infliggere sofferenza fisica e mentale per estorcere dichiarazioni sotto costrizione”. Hakamada è innocente.
Un risarcimento record, ma insufficiente
Il 24 marzo 2025, il tribunale di Shizuoka ordina al governo di versare a Hakamada il risarcimento massimo previsto dalla legge giapponese per i prosciolti: 217,362,500 yen, circa 1,2 milioni di euro. “Al richiedente verranno concessi 217.362.500 yen”, conferma un portavoce del tribunale all’agenzia France Presse, sottolineando che la cifra equivale a 77 euro per ogni giorno trascorso in cella dal 18 agosto 1966. Si tratta del più alto indennizzo mai riconosciuto in Giappone per un errore giudiziario, ma per molti non basta. Hideyo Ogawa, avvocato di Hakamada, non nasconde l’amarezza: “Penso che lo Stato abbia commesso un errore che non può essere risarcito con 200 milioni di yen”. La detenzione ha lasciato cicatrici profonde: Hakamada, descritto dai suoi legali come “intrappolato in un mondo di fantasia”, soffre di gravi problemi mentali, frutto di anni di isolamento e terrore.
Un caso che scuote il Giappone
La vicenda di Hakamada non è solo una storia personale, ma un simbolo delle crepe nel sistema giudiziario giapponese, noto per un tasso di condanne del 99% e per la durezza della pena di morte, ancora sostenuta dall’80% della popolazione secondo un sondaggio del 2019. È il quinto caso di revisione di una condanna a morte nel Giappone del dopoguerra, e tutti si sono conclusi con un’assoluzione. La sentenza ha riacceso il dibattito sull’abolizione della pena capitale, con organizzazioni come Amnesty International che celebrano il verdetto ma chiedono riforme urgenti. “Siamo sopraffatti dalla gioia per la decisione del tribunale di scagionare Iwao Hakamada”, ha dichiarato Boram Jang, ricercatrice di Amnesty, aggiungendo: “Questo ci ricorda il danno irreversibile causato dalla pena di morte”.
Una vita rubata, un futuro incerto
Oggi, Hakamada vive con la sorella Hideko a Hamamatsu, fragile e segnato da un’esistenza rubata. “Quando ho sentito il verdetto di non colpevolezza, mi è sembrato divino”, ha raccontato lei alla stampa dopo l’assoluzione, con le lacrime agli occhi. Ma il fratello, che un tempo calcava i ring con forza e determinazione, è un’ombra di sé stesso. La sua storia interpella il mondo: quanto vale una vita distrutta da un’ingiustizia? Il risarcimento, per quanto storico, non cancellerà i 46 anni passati a temere la morte ogni giorno.
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