A Roma c’è un intercalare un po’ volgare che per garbo non citeremo per intero. Ma vale il senso e l’arguzia di chi legge: “Ma una fettina di c…, no?”.
Ecco ci manca solo che Matteo (Renzi stavolta) voglia dal suo ex ormai segretario nazionale Pd, Nicola Zingaretti anche quella tanto citata fettina di terga per mettere a segno la strategia più azzardata, folle, temeraria, pericolosa, minatoria che poteva immaginare.
La notizia è nota: oggi il battesimo già in conferenza dei capigruppo al Senato quando la presidente Elisabetta Alberti Casellati potrebbe trovarsi a discutere della istituzione del nuovo gruppo parlamentare che fa capo agli scissionisti di Matteo Renzi che senza ombra di dubbio lascia la casa madre democratica.
Perché? Ha provato a spiegarlo in tanto modi: non vuole sentir cantare “Bandiera Rossa”, non c’è un sottosegretario toscano (perché non bastano ministri e sottoposti renziani, servono toscani altrimenti mi offendo), qualche ministra ha l’unghia incarnita, all’altro puzza l’alito e via discorrendo di amenità varie.
Insomma il vero motivo è quello nascosto nelle pieghe dell’abile, machiavellica mossa di Matteo il Toscano. Qual è? Riprendersi lo spazio che ha perso il 4 dicembre del 2016 quando chiuse le urne del referendum costituzionale che ha bocciato, platealmente, la riforma in tandem con Maria Elena Boschi, Matteo si è dimesso dalla presidenza del consiglio dei ministri a favore di telecamere e senza avvertire prima il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
Lo aveva detto che si sarebbe dimesso. E il bravo e ligio Matteo Renzi lo ha fatto convinto che questa coerenza fra parole e azioni lo avrebbe premiato. Ma mettendo anche nel conto che se l’altra promessa (“Lascio la politica…”) non avrebbe mai potuto e voluto mantenerla, comunque avrebbe dovuto inabissarsi nell’oblio. E il paziente Matteo lo ha fatto: 4 dicembre 2016 – 17 settembre 2019. Con una tappa intermedia servita su un piatto d’oro da un altro Matteo.
Salvini, stavolta che l’8 agosto scorso ha aperto la crisi, convinto (?) di avere le elezioni anticipate a portata di urna. Ma Matteo (Renzi) ha colto la palla e architettato quello che da tempo aveva in mente: dare fiato ad un governo giallorosso. Farlo insediare e poi posare sul tavolo del presidente Giuseppe Conte la pistola fumante. Già perché anche con la telefonata al premier in cui assicura sostegno all’esecutivo, il senatore di Scandicci, si assicura quel ruolo di protagonista assoluto della situazione.
La pistola fumante è evidentemente una metafora dell’avvertimento costante in cui vivrà il governo appena nato. Una condizione di ricatto perenne. Che Renzi manterrà in piedi fin quando non converrà a lui. Fin quando cioè il suo partito – nascente ma con lo sguardo lungo – ne avrà bisogno. Dice oggi intervistato da Repubblica, fino alle prossime politiche (“sperando che siano nel 2023” – pistola fumante, minaccia, ricatto…). Se nel frattempo, il suo partito di cui non dice il nome, si sarò rafforzato, andremo al voto prima. Quando Matteo deciderà.
Come voleva l’altro Matteo che oggi invece è tornato mestamente al Papeete beach.
Il che dovrebbe essere un monito per Renzi. Che di certo non difetta di spavalderia, coraggio, visione (?) chissà.
Ma torniamo alla “fettina di c…”. Quindi Renzi fa i suoi gruppi alla Camera e al Senato (dove sin da subito potrebbe intercettare lo scontento di alcuni forzisti che nella stella del cavaliere Berlusconi vedono ormai il crepuscolo di un tempo andato), ma alcuni suoi fedelissimi non transitano anzi rivendicano la volontà di restare nel Pd, come il capogruppo a Palazzo Madama Andrea Marcucci. Che quindi, secondo alcuni, non avrebbe motivo di essere sfiduciato dal suo incarico tranne che a fare curriculum negativo per lui sia il fatto di essere amico di Renzi. La cosa più logica a dire il vero. Ma nella narrazione dell’ex presidente del consiglio la sfiducia a Marcucci farebbe il paio con la litania che sentiamo da anni: “Se la prendono con il Matteo sbagliato”. Ora ci vuole poco a capire che i renziani che restano nel Pd altro non sono che un cavallo di Troia da fare uscire dall’antro al momento opportuno per cannibalizzare quel che resta del partito del Nazareno.
E il gioco è fatto. Ci riuscirà? Boh? Ci sta provando sicuramente e se gli riesce, beh Matteo Renzi avrà messo a segno un capolavoro di tattica politico-militare ineguagliabile. Senza che questo significhi che è cosa buona.
Oggi dunque all’orizzonte, nonostante le apparenti sconfitte, abbiamo due Mattei. Renzi – il protagonista del momento – e Salvini che certo morto non è. Noi, invece, almeno così sembra oggi, rischiamo di morire tutti Mattei.
Commenta con Facebook