La mafia di Barcellona Pozzo di Gotto continuava a gestire una impresa di smaltimento dei rifiuti solidi urbani, smaltimento di rifiuti speciali e demolizione dei veicoli posta sotto sequestro fin dal 2011. Il titolare dell’impresa, al quale l’azienda era stata sequestrata perché vicino a Cosa Nostra anche per legami di parentela, avrebbe continuato ad operare come titolare di fatto.
In pratica, nonostante il sequestro, il titolare sarebbe rimasto al suo posto grazie alla compiacenza dell’amministratore giudiziario completamente al servizio della cosca. Almeno secondo quanto avrebbero accertato lunghe indagini condotte dal Servizio centrale Operativo della Polizia, dalla squadra Mobile di Messina e dal Commissariato di Barcellona Pozzo di Gotto sotto la direzione della DdA di Messina.
Al culmine delle indagini la procura ha chiesto e ottenuto dal Gip 15 misure di custodia cautelare eseguite all’alba da 150 poliziotti che hanno operato in sei province. Le accuse sono di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, nonché per svariati delitti di estorsione, peculato, trasferimento fraudolento di valori, violazione della pubblica custodia di cose e sottrazione di cose sottoposte a sequestro, con l’aggravante del metodo e della finalità mafiosi.
Secondo quanto scrive la procura di Messina ciò è stato possibile anche grazie ai comportamenti dell’amministratore giudiziario, pressocché completamente asservito al potere mafioso del clan, nei cui confronti avrebbe manifestato “riverenza e compiacenza”, omettendo “l’adempimento dei doveri correlati all’esercizio delle sue funzioni”.
“L’attività investigativa – scrive la Procura – ha consentito di ricostruire il modus operandi degli
indagati al fine di creare illeciti guadagni, attraverso la vendita di pezzi di ricambio usati senza il prescritto titolo fiscale e lo smaltimento di rifiuti non censiti; tutto ciò grazie alla ritenuta complicità dell’amministratore giudiziario e di alcuni dipendenti, alcuni dei quali impiegati presso la ditta da oltre vent’anni”.
Secondo le indagini l’attività continuava per lo più in nero sotto la direzione del proprietario storico destinatario del decreto di confisca ma anche i proventi delle attività svolte “in chiaro” finivano nelle tasche del “titolare di fatto” secondo l’inchiesta: “Gli elementi di prova raccolti hanno, infatti, disvelato come l’impresa sarebbe stata utilizzata, anzitutto, quale strumento di illecito arricchimento, attraverso la quotidiana, continua appropriazione del denaro, non contabilizzato, dalle casse” scrive il procuratore Antonio D’Amato.
Il risultato finale era “la percezione, agli occhi della comunità, di un’organizzazione mafiosa in grado di gestire un’azienda, nonostante ben due provvedimenti di confisca e amministrazione giudiziaria” In questo modo la cosca dimostrava la proprio “potenza”. Situazione, questa, che avrebbe consentito agli indagati di porre a segno anche estorsioni sia nei confronti del personale dipendente ritenuto non “affidabile” e spesso allontanato dall’azienda, che nei confronti di altri imprenditori operanti in settori commerciali affini.
Il titolare di fatto, destinatario della confisca, era costantemente presente in azienda personalmente o attraverso i suoi familiari e questa stessa presenza era intimidatoria nei confronti di personale e aziende fornitrici o affini.
Alla fine sono 14 gli indagati finiti in carcere ed uno agli arresti domiciliari. Si tratta di Giuseppe Accetta di 40 anni, Luisella Alesci, 52, Salvatore Crinò, 58, Natale De Pasquale, 43, Tiziana Foti, 51, Angelo Munafò, 43, Fabio Salvo, 52, Paolo Salvo, 55, Salvatore Virgillito, di Paternò, 60 anni. Tutti componenti della famiglia Ofria gli altri. Sono Antonino, Domenico, Carmelo, Giuseppe, Salvatore e Chiara Ofria, di 21, 54, 33, 31, 61 e 26 anni. Tutti sono residenti o domiciliati nella città di Barcellona Pozzo di Gotto nel Messinese.