Studiosi provenienti da Università italiane, brasiliane, messicane e alte cariche del clero, daranno vita la prossima settimana al Convegno internazionale di Studi dedicato a San Bendetto il Moro. L’evento, sotto la direzione scientifica della storica Giovanna Fiume, si svolgerà mercoledì 23 ottobre alla Facoltà Teologica di Sicilia e giovedì 24 ottobre presso la Sala Magna dello Steri.

Il convegno, dal titolo “Schiavitù e santità nera. A 500 anni dalla nascita di Benedetto il Moro” è promosso in dai Frati Minori di Sicilia in collaborazione con l’Università degli Studi di Palermo e la Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia e il sostegno di Sicilbanca e Fondazione Sicana. 

“Rivolgo il mio ringraziamento nei confronti dei Frati Minori di Sicilia per l’organizzazione di questo convegno internazionale – dice Roberto Lagalla, sindaco di Palermo – un’occasione di studio e di confronto che celebra i 500 anni dalla nascita di San Benedetto il Moro, in un anno molto importante per la Città di Palermo che festeggia anche la sua altra protettrice, Santa Rosalia, e i 400 anni dal ritrovamento delle sue reliquie nel monte Pellegrino. Saranno due giorni di contributi di grande attualità, perché San Benedetto il Moro deve essere ancora oggi figura di grande ispirazione, perché già in vita veniva considerato un santo per la sua generosità, recandosi nei quartieri più difficili e poveri di Palermo per fare beneficenza”. 

Benedetto il Moro (a cura della Professoressa e storica Giovanna Fiume):  

Benedetto è il primogenito di Cristoforo Manasseri e Diana Larcan, una coppia di schiavi africani già cristiani; egli nasce nel 1524 a San Fratello (oggi in provincia di Messina) ed entra meno che ventenne tra gli eremiti di Girolamo Lanza, una Congregazione del Terzo Ordine francescano dedita alla vita solitaria, alla preghiera, all’astinenza. Data la precoce fama di santità di cui godono questi eremiti, per sfuggire al concorso di popolo che si reca a richiedere grazie e preghiere di intercessione, essi sono costretti frequentemente a traslocare da un eremo all’altro: da Santa Domenica, nei pressi di San Fratello, alla Platanella sul fiume Platani nell’agrigentino, alla Mancusa, tra Partinico e Carini, fino a monte Pellegrino, l’altura che sovrasta Palermo. Gli eremiti del Lanza, autorizzati nel 1551 da Giulio III a fondare eremi, nel 1560 si avviano verso forme di vita claustrali e nel 1562 vengono soppressi e obbligati a passare ad altre famiglie francescane. Nel 1562, infatti, Pio IV sopprime la Congregazione degli eremiti del Lanza e Benedetto entra nel convento di Santa Maria di Gesù, fuori le mura di Palermo, dove rimane sino alla morte nel 1589.  

Anche qui lo raggiunge la fama di taumaturgo, così da attrarre decine di devoti che gli domandano conforto e consiglio, predizioni e rivelazioni di cose future, ma prevalentemente guarigioni. Siamo, dunque, in presenza di un “santo vivo”, che viene descritto come “allegro, amorevole, piatusu”, i cui devoti appartengono a tutti gli strati sociali e in particolare ai ceti più elevati; testimoniano nei processi di canonizzazione aristocratici, funzionari di prestigiose magistrature del Regno e le loro larghe parentele e clientele, mercanti, notai, procuratori legali, medici, artigiani e numerose figure del popolo minuto.

Una pletora di testimoni (97 al processo ordinario del 1594, 68 a Palermo e 63 a San Fratello nel processo ordinario del 1620, 223 a Palermo e 77 a San Fratello nei processi apostolici del 1625-26, per un totale di 538) si pronuncia per la santità del frate nero e ne crea e diffonde una fama incentrata sul possesso delle virtù cardinali e teologali in grado eccelso, su cui testimoniano prevalentemente i confratelli, ma soprattutto sui miracoli, per lo più di guarigione.

Dopo questi primi cinque processi, i decreti di Urbano VIII (1628, 1631 e 1634), tesi a evitare gli inconvenienti dovuti alla fretta di concludere le cause di canonizzazione, fermano la corsa di Benedetto verso gli altari, insieme a quella di tutti gli altri candidati alla santità i cui processi erano iniziati prima che fossero trascorsi cinquanta anni dalla morte. Nel frattempo però la devozione di cui Benedetto era stato fatto oggetto, in vita e post mortem, aveva spinto le autorità locali, l’Ordine francescano e gli altolocati devoti a richiedere una collocazione più adeguata alle sue spoglie. Traslato una prima volta nel 1591 dalla fossa comune dei frati del convento di Santa Maria di Gesù – dove era stato inumato subito dopo il decesso – alla sacrestia della chiesa, nel 1592 il suo corpo viene collocato dentro un «casserizzo di legno di carrubo intagliato» (conservato a tutt’oggi in un locale del convento) su cui «si mettono i padri a celebrare la messa», usandolo cioè come altare, in altre parole sacralizzandolo. Nel 1611, la cassa lignea viene collocata dentro la chiesa, in una posizione elevata da terra, sotto uno degli altari laterali. Nello stesso anno, l’Inquisizione siciliana per i numerosi miracoli “comprovati”, dà licenza «se pintasse con rayos, resplandor y diadema en la cabeça» come si usa per i beati. Le traslazioni del 1592 e del 1611 costituiscono anche l’occasione per trarre dal corpo del frate numerose reliquie che, oculatamente distribuite, contribuiscono a moltiplicare le occasioni di miracoli e la rete dei devoti.

Le sue immagini hanno già raggiunto la Nuova Spagna (l’attuale Messico) e sono venerate nel convento di Ciudad de los Angeles, come scrive Antonio Daça, il primo biografo del nostro frate. Nel 1618 si svolge a Lisbona, alla presenza di Filippo III, una processione: «S’ammirava tra le altre cose una moltitudine di huomini Negri, i quali honora[vano] il loro patrono […] un frate zoccolante nero, il quale da coloro era chiamato il Beato Benedetto da Palermo». La necessità di averlo santo proviene dalla sempre maggiore presenza di africani schiavi non solo in Spagna e Portogallo, ma soprattutto nelle Americhe, dove le confraternite organizzate dagli schiavi africani, il cui contingente raggiunge tra XVII e XVIII secolo cifre sempre più consistenti in concomitanza alle ondate di trasferimenti di schiavi africani, richiamati dalla forte domanda di forza lavoro nelle miniere, nelle piantagioni e nel servizio domestico nelle colonie, gli intitolano altari e celebrano feste annuali con moduli stilistici influenzati dalla cultura africana.

Mentre a Palermo nel 1652 il Senato cittadino lo elegge patrono e suo avvocato celeste, nelle lontane Americhe San Benito de Palermo, in area ispanica o São Benedito o Preto (il Nero) in area lusofona, facilita l’opera di evangelizzazione degli schiavi africani condotta dai missionari: dagli altari uno schiavo dalla pelle nera indica un modello di santità incentrato sull’umiltà, l’obbedienza, l’amore tra le classi e le razze in un contesto di duro sfruttamento e di schiavitù.

Benedetto diventa il simbolo di una storia globale capace di interconnettere l’universalismo della Chiesa cattolica, il fervente dinamismo dei missionari francescani, il commercio internazionale degli schiavi africani, le loro necessità spirituali e la stringente utilità del loro associazionismo.

L’ufficio stampa: Annalisa Castiglione 3341692582 


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