Giornalisti contro teppisti da tastiera. Difendere il buon giornalismo nell’era digitale

“Il giornalismo o è indipendente, o non è giornalismo”, tuonava Indro Montanelli dalla sua scrivania del Giornale negli anni ’70. Parole che oggi, nell’era dei social media e del clickbait, risuonano come un monito inascoltato. C’è una razza di giornalisti che, a ogni generazione, emerge dalle redazioni come una nebbia molesta, pronta a insinuarsi ovunque ci sia la possibilità di urlare più forte del buon senso. Nel 2023, l’Ordine dei Giornalisti ha dovuto sanzionare oltre 300 professionisti per violazioni deontologiche gravi, un record che la dice lunga sulla deriva della professione.

Prendiamo il caso emblematico del 2022: una nota testata online pubblicò una serie di articoli infamanti su un presunto scandalo in una scuola elementare di una opulenta città del Nord Italia. Titoli sensazionalistici, foto rubate, dettagli privati esposti senza pudore. Dopo settimane di gogna mediatica, emerse che l’intera storia era basata su un equivoco, ma ormai il danno era fatto. Come diceva Enzo Biagi, “Una reputazione si distrugge in un attimo, ci vogliono anni per ricostruirla.”

Questi scribacchini senza scrupoli, il cui mestiere è più vicino al mestiere di guastafeste che a quello di cercatori di verità, non guardano in faccia nessuno. Nel 2021, il caso della falsa notizia sul suicidio di una nota showgirl dimostrò quanto possa essere devastante il “giornalismo dell’istante” quando praticato senza verifiche. Decine di testate rilanciarono la notizia falsa nel giro di pochi minuti, causando dolore indicibile alla diretta interessata e ai suoi familiari.

“Un giornalista è uno storico del presente”, diceva sempre Montanelli. Ma che dire di chi trasforma la cronaca in un teatrino grottesco, riducendo fatti e persone a marionette mosse da titoli sensazionalistici? Nel 2024, secondo l’Osservatorio sul Giornalismo Digitale, il 78% delle notizie più condivise sui social contiene elementi sensazionalistici o non verificati. Il caso del “mostro di Firenze junior” del 2023 è emblematico: un giovane venne additato come serial killer sulla base di coincidenze superficiali, con tanto di foto e indirizzo di casa pubblicati online. Si scoprì poi che era completamente estraneo ai fatti.

Eugenio Scalfari sosteneva che “il giornalismo è racconto dei fatti, mai invenzione”. Eppure, nel 2022, una delle più importanti testate nazionali dovette licenziare un giornalista che aveva inventato di sana pianta interviste a personaggi pubblici per anni. Le sue “esclusive” avevano fatto il giro del web, generando milioni di visualizzazioni e condivisioni. Come disse Giorgio Bocca, “Il problema non è solo chi scrive falsità, ma chi le legge e le condivide senza pensare.”

Il giornalista senza scrupoli non è mai interessato a verificare, ma solo a vendere (spesso solo se stesso in una sorta di delirio narcisistico condito da pessime intenzioni). Nel 2023, un’inchiesta del Centro Studi sul Giornalismo ha rivelato che il 45% dei giornalisti under 35 ammette di aver pubblicato notizie senza verificarne completamente le fonti, spinti dalla pressione di dover produrre contenuti virali. Come ricordava Tiziano Terzani, “Il giornalismo non è un mestiere per chi ha fretta.”

La tecnologia ha amplificato questo fenomeno. Gli algoritmi dei social media premiano il sensazionalismo, non l’accuratezza. Nel 2024, uno studio dell’Università di Stanford ha dimostrato che un articolo scandalistico ha in media il 300% di possibilità in più di diventare virale rispetto a un pezzo di giornalismo investigativo ben documentato. Come diceva Giovanni Spadolini, “Il giornalismo o è investigazione o non è”. Ma cosa resta dell’investigazione quando la corsa al click diventa l’unico obiettivo?

Esistono ancora esempi virtuosi, per fortuna. L’inchiesta del 2023 sul traffico di rifiuti tossici in Campania, frutto di sei mesi di lavoro paziente e verifiche incrociate, ha portato a risultati concreti e a diversi arresti. O il lavoro certosino sul caso delle “mascherine d’oro” durante la pandemia, che ha richiesto mesi di verifiche ma ha svelato uno scandalo reale, non inventato.

Alberto Moravia diceva che “il giornalista deve essere testimone, non protagonista”. Oggi invece assistiamo a quello che potremmo chiamare “giornalismo-spettacolo”, dove il reporter diventa più importante della notizia. Nel 2022, il caso di un noto giornalista televisivo che modificò le riprese di un servizio per renderle più drammatiche dimostra quanto sia sottile il confine tra informazione e spettacolo.

Non si salva nessuno dalla loro furia mediatica. Politici, artisti, uomini comuni, gli stessi loro colleghi: tutti sono bersagli. Nel 2023, un giovane insegnante di una città del Veneto si è tolto la vita dopo essere stato ingiustamente accusato di molestie da alcuni siti web di pseudo-informazione. Le accuse si rivelarono false, ma ormai era troppo tardi. Come diceva Oriana Fallaci, “Il giornalismo può uccidere più di un’arma.”

La soluzione? Tornare ai fondamentali. Come suggeriva Montanelli, “Un giornalista deve sempre chiedersi: questa notizia farà del bene o del male alla verità?” Non si tratta di demonizzare il nuovo: le tecnologie digitali possono essere strumenti preziosi se usati con responsabilità. Il fact-checking automatizzato, l’intelligenza artificiale per l’analisi dei dati, i big data per il giornalismo investigativo: sono tutte innovazioni che potrebbero migliorare la qualità dell’informazione.

Ma la tecnologia non può sostituire l’etica. Nel 2024, alcune testate hanno iniziato a implementare un “codice etico digitale”, che prevede verifiche multiple prima della pubblicazione di notizie potenzialmente dannose. È un inizio, ma non basta. Come diceva Vittorio Foa, “L’etica non è un optional nel giornalismo, è la sua ragione d’essere.”

È ora di chiedersi: che giornalisti vogliamo essere? Quelli che cercano la verità, o quelli che la vendono al miglior offerente? Perché, alla fine, la differenza tra un cronista e un cialtrone è tutta qui: uno serve la verità, l’altro si serve di essa. Come concludeva sempre Montanelli: “Il giornalismo è un mestiere da artigiani: si impara facendo, ma soprattutto sbagliando. L’importante è imparare dagli errori, non farne un metodo.”

La posta in gioco è alta: non si tratta solo di salvare una professione, ma di preservare il diritto dei cittadini a un’informazione libera e veritiera. Come diceva Kapuściński, “I cinici non sono adatti a questo mestiere.” È tempo che il giornalismo ritrovi la sua bussola morale, prima che sia troppo tardi. O forse lo è già.


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