Pietro Tramontana è stato un giocatore di rugby come ce ne sono davvero pochi in Italia, in Europa e probabilmente al mondo.
Ho avuto il privilegio di averne conosciuti diversi di questi campioni, in Sicilia, militando per decenni in quell’Amatori che non era solo Catania, ma anche Palermo.
Un drappello di palermitani era infatti entrato a far parte della nostra squadra alla fine degli anni Settanta, contribuendo a realizzare, nella stagione 1982, il miracolo del secondo posto nel campionato di serie A. Sono orgoglioso di aver fatto parte di quella squadra di disperati senza il becco di un quattrino che andava a prendere cinquanta punti e le botte sui gelidi campi del nord Italia, ma poi li restituiva tutti, punti e botte, quando si giocava in Sicilia.
Una squadra che non partiva in aereo, che non possedeva abbigliamenti coordinati, tute cravatte, borse con scritto in grande evidenza il nome della società, che non poteva sempre permettersi di pranzare nei ristoranti. Quando partivamo, nelle estenuanti trasferte in treno che duravano quasi due giorni, qualcuno dei miei compagni teneva maglietta, pantaloncini e calzettoni, scoloriti dai tanti lavaggi, nei sacchetti del supermercato. Vergognandosene un po’.
Poi però si cominciava a giocare a carte per ingannare il tempo, e, mangiando insieme panini e allegria, ci sentivamo felici. Fin quando non arrivavamo a San Donà, a Treviso, e dagli spalti ci urlavano “Terroni!”. Ma c’eravamo, in serie A.
E, perdio, ci facevamo rispettare grazie a giocatori dalle incredibili qualità umane e sportive. Quattro di essi sono scomparsi, purtroppo. Non mi consola che siano, così, definitivamente entrati nella leggenda.
Uno fu Giovanni Balbo, un lottatore che riuscì a giocare una partita con entrambe le braccia fratturate e cadde vittima della violenza vigliacca di chi gli sparò per un semplice rimprovero.
Un altro fu Nino Puglisi, una sorta di incredibile Hulk dalla tecnica rugbistica sopraffina, che una volta, a Frascati, strappò a mani nude una panchina di marmo della stazione alzandola sulla testa per far desistere dai propositi bellicosi i tifosi locali che non avevano preso molto bene il fatto di esser stati sconfitti.
Il terzo si chiamava Franco Di Maura, ma per via della stazza, dei baffoni e dei capelli rossi, era noto dappertutto come “Il Vikingo”.
Il quarto, e mi piange il cuore a dirlo, perché se ne è andato proprio in questi giorni, era quello con il quale maggiormente mi identificavo, per età, stazza e indole. Pietro Tramontana si chiamava – “Roccia” per gli amici e soprattutto per i nemici – e faceva parte di quel drappello di rugbisti palermitani dal gran cuore del quale parlavo prima.
“Questa nostra benedetta terra siciliana – si lamentava a quei tempi Benito Paolone – produce atleti straordinari per giocare dal numero otto in poi, ma in mischia, come facciamo contro questi vitelli veneti?”. In più le grandi squadre potevano permettersi d’ingaggiare i giganti sudafricani: Naudé nel Rovigo, Murtagh nel San Donà.
Di quest’ultimo si diceva che avesse spigoli persino sotto le ascelle ed era il peggior incubo dei più grandi rugbisti italiani. Arrivarono, dunque, da Palermo e il primo fu Trombino, che era un po’ più grande. Poi vennero Pietro Tramontana e Filippo La Torre. E ancora, di seguito, Gioacchino, fratello di Filippo, e i piloni Fabio Rubino e Vincenzo Nicolosi.
Ci trovammo subito bene insieme: eravamo ragazzi, ci piacevano il rugby, la birra, ci piaceva divertirci e lo facevamo davvero con pochissimo. Alla prima trasferta scoprimmo in un sol colpo che a Pietro non piaceva affatto perdere e che aveva una testa durissima. Dopo la sconfitta, nello spogliatoio, spaccò a testate tutte le porte dello spogliatoio. E lo avrebbe sempre fatto, se non riuscivamo a vincere fuori casa – il che avveniva quasi sempre -, anche negli anni a venire.
Si incazzava ma era anche spassosissimo. Potevamo chiacchierare su qualunque argomento e fino a notte fonda. Io ero l’unico già sposato, per cui casa mia era diventata un punto di riferimento. Ricordo che una volta, prima di una partita, avevamo bevuto qualche birra di troppo, così, mentre mia moglie andò a dormire sul divano, sul letto matrimoniale ci accomodammo in tre: il sottoscritto, Pietro Tramontana e Turi Forte. Per un totale di quasi quattrocento chili.
Inutile dirvi che il letto non si è più ripreso, da allora. E ricordo di non aver mai più visto le lenzuola in cui dormimmo. Sospetto che mia moglie le abbia subito buttate via.
Ho chiamato i miei compagni catanesi per dare loro la notizia della morte di Pietro: Turi Forte, Giovanni Di Bella, Elio Di Maura, Giovanni Petralia e altri. Un dolore profondo ci ha colto tutti. Non si poteva non volergli bene, per la sua generosità e il calore umano, la capacità di coinvolgere tutti. Forse lo doveva un po’ anche alla sua attività di animatore nei villaggi turistici.
Era stato un pilastro di Città del Mare e poiché aveva l’animo del latin lover, come i marinai hanno una donna in ogni porto, a lui bastava telefonare per far giungere in ogni parte d’Italia le “pupette” che aveva conosciuto a Terrasini.
In quello sport che tanto amava, poi era un trascinatore, Tramontana, e lo dimostra lo straordinario lavoro che è sempre riuscito a fare a Palermo, tanto da meritarsi un premio alla carriera conferitogli dalla Federazione italiana rugby. L’ultima volta che ci siamo visti, a Ragusa, mi aveva dato il suo nuovo numero di cellulare. Non lo avevo memorizzato con il nome Tramontana. Avevo scritto Roccia. Lui era visibilmente soddisfatto.
Una leggenda non nasce mai tutto in una volta, ma a poco a poco. Da tempo si faceva chiamare così, ma ci fu un momento preciso in cui quel soprannome divenne un nome di battaglia.
Fu a San Donà del Piave, ma non chiedetemi l’anno. Era una delle solite partite in cui a noi che venivamo dalla terra del sole il gelo ci bloccava le gambe. Gli avversari ce le stavano suonando: mete e botte. Passai una palla a Pietro, che partì in avanti. Murtagh, quello degli spigoli sotto le ascelle, prese la rincorsa e caricò. Le teste cozzarono con un rumore d’ossa che rimbombò in tutto lo stadio.
Il pubblico ammutolì. Scese un silenzio preoccupato. Murtagh e Pietro erano a terra. Noi con la maglia bianca, noi Amatori, ci stringemmo attorno a lui. Lo guardammo mettersi faticosamente in piedi, raddrizzarsi. Fece due passi in avanti, fino a raggiungere il sudafricano, steso in terra. Lo guardò con un sorriso ineffabile e gridò con tutta la forza che aveva: “IO SONO ROCCIA!”
Per questo per noi sarà sempre un mito, Pietro Tramontana, alfiere del miglior rugby siciliano, dello sport disinteressato da trasmettere come un dono prezioso a bambini e ragazzi.
Addio Roccia, non ti dimenticheremo mai.