- La deposizione dell’Avv. Ingroia, all’epoca allievo di Borsellino
- Dubbi sul coinvolgimento del Sisde di Contrada da parte di Tinebra
- Gli ex avvocati di Scarantino: “pm sconcertati da sua ritrattazione”
Nuova giornata di intense deposizioni al processo di Caltanissetta che indaga sul Depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. A parlare sul banco dei testimoni oggi l’avvocato Antonio Ingroia (all’epoca giovane magistrato allievo di Borsellino) e gli ex legali del falso pentito Vincenzo Scarantino. Il punto.
Ingroia, “Mutolo pronto a parlare di uomini Stato”
“Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio nell’attività immediatamente sviluppata dalla Procura di Caltanissetta ci venne comunicato che il procuratore capo Tinebra aveva chiesto e ottenuto dal procuratore generale di Palermo di poter avere un ufficio a sua disposizione dentro il palazzo di giustizia di Palermo, che gli venne concesso al primo piano. Tinebra mi contattò per incontrarmi. Ci andai”. A raccontare le fasi subito dopo la strage di Via D’Amelio del 19 luglio del 1992, in cui persero la vita Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, è l’avvocato Antonio Ingroia, ex pm, chiamato oggi a deporre come teste nell’ambito del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage, che si svolge a Caltanissetta.
“Tinebra – ha continuato Ingroia rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso – si presentò vestito in maniera informale e mi disse che voleva farsi un’idea e se c’erano cose particolari sul quale indirizzare le indagini. Mi parve importante e significativo metterlo a parte di ciò che avevo saputo la sera stessa della strage, seduto su una delle panchine dei corridoi della Procura di Palermo. Eravamo io, la collega Teresa Principato e il collega Ignazio De Francisci; entrambi mi raccontarono di aver appreso da Paolo Borsellino, il sabato 18, quando io non ero in ufficio, che uno o due giorni prima aveva interrogato Gaspare Mutolo, il quale, fuori verbale, gli aveva anticipato delle rivelazioni che aveva da fare su uomini dello Stato e cioè Bruno Contrada e il magistrato Domenico Signorino“.
Mutolo infatti disse a Borsellino: ‘Dottore si guardi le spalle perché dentro lo Stato ci sono delle complicità con Cosa nostra’ e gli fece i nomi di Signorino e Contrada.
Lo strano incontro con Contrada
“Borsellino – ha raccontato Ingroia – si recò a Roma al ministero dell’Interno e riferì che con una scusa venne accompagnato in una stanza in cui incontrò Bruno Contrada. Quest’ultimo era a conoscenza dell’inizio della collaborazione di Gaspare Mutolo. Borsellino lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”.
“Borsellino negli ultimi tempi non si fidava più”
“Nell’ultima fase della sua vita Paolo Borsellino teneva la porta del suo ufficio sempre chiusa. Il suo carattere era sempre stato allegro ed estroverso, a differenza di quello di Giovanni Falcone che era più riservato. Quindi era uno che aveva sempre tenuto la porta aperta con un viavai continuo di colleghi. Nell’ultimo periodo teneva sempre chiusa la porta. Mi disse che era per tutelare la sua riservatezza, perché chiunque passava vedeva con chi si incontrava. Non si fidava più”. Ha aggiunto l’avvocato Ingroia.
“Non dirlo neanche a Scarpinato”
“Ricordo – ha aggiunto Ingroia, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino – che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”.
Ingroia, “Scarantino inattendibile su Berlusconi”
“Interrogai Vincenzo Scarantino in veste di sostituto. Ci venne segnalato che aveva presunte rivelazioni da rendere a carico di Bruno Contrada, relativamente a presunte soffiate di quest’ultimo che avrebbero fatto sfumare operazioni di polizia, e rivelazioni sul coinvolgimento di Silvio Berlusconi su traffico di droga”.
“Quelle su Berlusconi – ha continuato Ingroia – a naso mi parvero subito inattendibili e infatti non c’erano riscontri. In riferimento a quelle su Contrada c’erano dei riscontri generici ma non c’era nessun elemento sul fatto che Contrada potesse essere a conoscenza di piccole operazioni dei commissariati X o Y, per cui non ritenni le sue dichiarazioni non meritevoli di approfondimento. Si discusse se procedere per calunnia, ma c’era il rischio che non ci fossero sufficienti prove per dimostrare che quelle dichiarazioni erano volutamente depistanti, e c’era il rischio che se si incriminava per calunnia questo pentito si sarebbe innescata una guerra”.
Nel processo sono imputati tre poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, per il reato di calunnia in concorso aggravata. Secondo l’accusa avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a mentire per depistare le indagini.
Pm sconcertati da ritrattazione Scarantino
“Sono certo che la ritrattazione fatta da Vincenzo Scarantino fu verbalizzata. Scarantino disse che l’avevano indotto a collaborare. I magistrati erano sconcertati e amareggiati. Il dottor Petralia si mise quasi le mani ai capelli. Pensavano: ‘ma Scarantino ci aveva riferito cose che solo chi in qualche modo ha partecipato al fatto può conoscere. E quindi o gliele ha dette qualcuno oppure c’è qualcosa che non va’ “. Lo ha detto Santino Foresta, ex avvocato di Vincenzo Scarantino, deponendo oggi nel corso dell’udienza del processo sul depistaggio delle indagini sulla Strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta, in riferimento a un interrogatorio del 2 settembre del 1998.
Accusatosi di aver partecipato all’attentato contro il giudice Paolo Borsellino, Scarantino viene arrestato il 29 settembre 1992. Dopo essere stato recluso nel carcere di massima sicurezza di Pianosa, decise di collaborare con gli inquirenti spiegando come venne organizzata la strage in cui morì il giudice Borsellino. Venne condannato a 18 anni e poi cominciò ad accusare poliziotti e magistrati.
Nel 1998 Scarantino ritrattò tutto affermando di non avere preso parte all’attentato di via D’Amelio e di essere stato costretto da Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo a confessare il falso, e di aver subito maltrattamenti durante la sua detenzione nel carcere di Pianosa.
Nel 2008 il pentito Gaspare Spatuzza ha confessato di essere stato l’autore del furto dell’auto Fiat 126 usata per l’attentato, scagionando Scarantino e dimostrando che era un falso pentito, usato per sviare le indagini sulla morte di Borsellino.
Dopo il pentimento dell’ex boss di Brancaccio, che si è accusato della strage e ne ha ricostruito la vera dinamica, i sette ingiustamente condannati sono stati scarcerati.
“Quando Scarantino ritrattò i magistrati si posero il problema che sapeva delle cose che non poteva sapere se si era inventato tutto. Chiaramente quello che era accaduto non era del tutto normale. Durante l’interrogatorio – ha aggiunto il teste rispondendo alle domande dell’avvocato Giuseppe Scozzola – non ricordo se ci fossero state delle pause e non ricordo nemmeno se gli furono mostrate foto. Erano presenti i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. Dopo un po’ nel corso del suo interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione confermando quanto detto in precedenza”.
Le indagini sui due magistrati
Palma e Petralia facevano parte del pool che coordinò l’indagine sull’attentato costato la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della scorta. A entrambi si contestava il reato di concorso in calunnia aggravato dall’avere favorito Cosa nostra. Ma il procedimento è stato archiviato dalla Procura di Messina, guidata da Maurizio De Lucia.
Annamaria Palma attualmente è avvocato generale a Palermo, mentre Carmelo Petralia, che ha ricoperto la carica di procuratore aggiunto a Catania, è in pensione. All’istanza di archiviazione si erano opposti i legali delle persone offese dal reato (tra cui i familiari del giudice Borsellino).
Ex legale, ad Andriotta mai dati appunti magistrato
“Escludo di avere mai consegnato documenti o atti con appunti della dottoressa Annamaria Palma a Francesco Andriotta“. Lo ha detto l’avvocato Floriana Maris, che in passato si occupò della difesa del pentito Francesco Andriotta, deponendo oggi come teste al processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che si celebra a Caltanissetta.
Andriotta è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione nell’ambito del processo Borsellino quater per le calunnie ai danni dell’ex pentito Vincenzo Scarantino, mentre da una terza accusa di calunnia, sempre ai danni di Scarantino, è stato assolto.
“Conobbi Andriotta perché fu condannato per un omicidio a sfondo sessuale – ha continuato Floris – Poi mi chiamò la dottoressa Palma per chiedermi se potevo assisterlo, perché doveva essere sentito nel processo Borsellino. Eravamo a Rebibbia con i detenuti nelle gabbie che urlavano. Venne assalito non solo dagli imputati che si trovavano dentro le gabbie, ma anche dai loro difensori, perché il suo esame si svolse sostanzialmente sulle sue abitudini omosessuali. Un’udienza terribile, senza nessuna civiltà. E Andriotta ebbe anche una crisi di nervi. Ci fu una pausa per consentirgli di riprendersi e gli vennero mostrati dei verbali. E io non so se li avesse già in mano prima dell’udienza, o se venivano dati come aiuto alla memoria”.
Poi la teste ha aggiunto, rispondendo all’avvocato difensore di Mario Bo, Giuseppe Panepinto: “Il dottor Bo non lo conosco. Di ufficiali o appartenenti della polizia ne conosco tanti, ma non ricordo di aver mai visto lui”.
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