La requisitoria del processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio che si celebra a Caltanissetta inizierà il 26 aprile.
Il presidente del tribunale Francesco D’Arrigo, nell’udienza di oggi, ha dichiarato chiusa l’istruttoria dibattimentale. Imputati del processo per il depistaggio sulla strage, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, sono tre poliziotti: Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.
Secondo l’accusa i tre ex componenti del gruppo “Falcone Borsellino”, assistiti dagli avvocati Giuseppe Panepinto e Giuseppe Seminara, avrebbero indotto Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso, mediante minacce, pressioni psicologiche e maltrattamenti. L’accusa è di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra.
A metà dicembre 2021, l’avvocato Antonio Ingroia (all’epoca giovane magistrato allievo di Borsellino), ha testimoniato assieme e gli ex legali del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Queste le sue parole: “Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio nell’attività immediatamente sviluppata dalla Procura di Caltanissetta ci venne comunicato che il procuratore capo Tinebra aveva chiesto e ottenuto dal procuratore generale di Palermo di poter avere un ufficio a sua disposizione dentro il palazzo di giustizia di Palermo, che gli venne concesso al primo piano. Tinebra mi contattò per incontrarmi. Ci andai”.
Ingroia ha continuato: “Tinebra si presentò vestito in maniera informale e mi disse che voleva farsi un’idea e se c’erano cose particolari sul quale indirizzare le indagini. Mi parve importante e significativo metterlo a parte di ciò che avevo saputo la sera stessa della strage, seduto su una delle panchine dei corridoi della Procura di Palermo. Eravamo io, la collega Teresa Principato e il collega Ignazio De Francisci; entrambi mi raccontarono di aver appreso da Paolo Borsellino, il sabato 18, quando io non ero in ufficio, che uno o due giorni prima aveva interrogato Gaspare Mutolo, il quale, fuori verbale, gli aveva anticipato delle rivelazioni che aveva da fare su uomini dello Stato e cioè Bruno Contrada e il magistrato Domenico Signorino“.
Mutolo infatti disse a Borsellino: ‘Dottore si guardi le spalle perché dentro lo Stato ci sono delle complicità con Cosa nostra’ e gli fece i nomi di Signorino e Contrada”.
“Borsellino – ha raccontato Ingroia – si recò a Roma al ministero dell’Interno e riferì che con una scusa venne accompagnato in una stanza in cui incontrò Bruno Contrada. Quest’ultimo era a conoscenza dell’inizio della collaborazione di Gaspare Mutolo. Borsellino lo percepì come un segnale preoccupante. Pensò che qualcuno dal ministero dell’Interno voleva fargli sapere che Contrada non era solo e c’erano loro dietro di lui. Questo lo appresi da Carmelo Canale e poi da Agnese Borsellino”.
“Nell’ultima fase della sua vita Paolo Borsellino teneva la porta del suo ufficio sempre chiusa. Il suo carattere era sempre stato allegro ed estroverso, a differenza di quello di Giovanni Falcone che era più riservato. Quindi era uno che aveva sempre tenuto la porta aperta con un viavai continuo di colleghi. Nell’ultimo periodo teneva sempre chiusa la porta. Mi disse che era per tutelare la sua riservatezza, perché chiunque passava vedeva con chi si incontrava. Non si fidava più”. Ha aggiunto l’avvocato Ingroia.
“Ricordo – ha aggiunto Ingroia, rispondendo alle domande dell’avvocato Fabio Trizzino – che incontrandomi nella sua stanza mi disse di non dire a nessuno di una importante collaborazione che stava per arrivare. La prima volta non mi disse neanche il nome, ma che c’era un grosso pentito che si apprestava a collaborare e che a suo parere poteva fare luce su legami tra Cosa Nostra e altri ambienti. Mi chiese di non dirlo neanche a Roberto Scarpinato, perché quest’ultimo era uno con cui io parlavo”.
Ed inoltre “Interrogai Vincenzo Scarantino in veste di sostituto. Ci venne segnalato che aveva presunte rivelazioni da rendere a carico di Bruno Contrada, relativamente a presunte soffiate di quest’ultimo che avrebbero fatto sfumare operazioni di polizia, e rivelazioni sul coinvolgimento di Silvio Berlusconi su traffico di droga”.
Silvio Berlusconi “Quelle su Berlusconi – ha continuato Ingroia – a naso mi parvero subito inattendibili e infatti non c’erano riscontri. In riferimento a quelle su Contrada c’erano dei riscontri generici ma non c’era nessun elemento sul fatto che Contrada potesse essere a conoscenza di piccole operazioni dei commissariati X o Y, per cui non ritenni le sue dichiarazioni non meritevoli di approfondimento. Si discusse se procedere per calunnia, ma c’era il rischio che non ci fossero sufficienti prove per dimostrare che quelle dichiarazioni erano volutamente depistanti, e c’era il rischio che se si incriminava per calunnia questo pentito si sarebbe innescata una guerra”.