Tracciare la biografia di un uomo che è stato il proprio punto di riferimento e con il quale la propria esistenza si è intrecciata sin dall’infanzia non è facile. Vi è il rischio che i ricordi personali prendano il sopravvento e di dare troppo spazio a momenti soggettivi che non interessano la gran parte dei lettori.
Felice Cavallaro era consapevole delle difficoltà a cui andava incontro nello scrivere la biografia di Leonardo Sciascia, la cui casa di campagna alla Noce (il suo “buen retiro”) distava pochi metri da quella dei suoi genitori.
E però ha voluto cimentarsi nell’impresa cercando di dribblare gli ostacoli della frequentazione costante con lo scrittore e dell’affetto verso di lui nutrito: ostacoli che potevano rivelarsi fuorvianti. Sicché, a volere onorare il trentennale dalla sua morte, è uscito da poco il suo “Sciascia l’eretico”, sottotitolo “Storia e profezie di un siciliano scomodo”, edito da Solferino.
La prima domanda che ci si pone leggendo “Sciascia l’eretico” è se Cavallaro, firma prestigiosa del Corriere della Sera, sia riuscito a ritrarre l’autore de “Il giorno della civetta” e a raccontarne la vita con oggettivo distacco e senza lasciare alcuna traccia del proprio vissuto.
La risposta, secca, è no. Cavallaro ci ha consegnato una biografia di Sciascia in cui l’autore non scompare, almeno del tutto, dietro le quinte. In “Sciascia l’eretico” Cavallaro non riesce a mimetizzarsi, a nascondersi: la sua presenza si sente in diversi passi del libro. Ma non è una presenza ingombrante e non oscura il primo piano di Leonardo Sciascia.
Ed anzi concorre a offrirci una narrazione familiare e ricca di partecipazione emotiva.
Intendiamoci, la biografia di Cavallaro è abbastanza organica, segue un’esposizione dettata da una rigorosa logica editoriale. La vita di Leonardo Sciascia è raccontata nelle sue tappe evolutive mettendo in risalto i momenti più significativi, e anche dolorosi, e nello stesso tempo legando le trame della sua esistenza alle sue opere letterarie.
E però – e in ciò sta l’originalità del testo di Cavallaro – il racconto non è mai asettico ed è sempre ravvivato dal calore dell’afflato amicale.
Ciò che preme all’autore è porre in rilievo lo spirito libero, “eretico”, di Sciascia – come peraltro si rileva dal titolo -, e ciò emerge chiaramente in tutte le pagine del libro, non solo in quelle finali, nelle quali echeggiano tante polemiche provocate dallo scrittore di Racalmuto, ma anche in quelle iniziali. Leggendo la biografia affiora il rigore illuminista e l’intransigenza di uno scrittore controcorrente.
Sciascia ebbe sempre una sua linea di pensiero in cui spiccavano il robusto senso etico e il culto della giustizia quasi ossessivo, che si è manifestato sia quando si stava per affermare nel mondo della letteratura sia quando la sua autorevolezza fu unanimemente riconosciuta.
Un altro tratto originale di questa biografia è il soffermarsi sulle vicende di mafia che hanno cosparso di sangue la Sicilia conosciuta da Sciascia. Cavallaro è stato testimone privilegiato (passi il non felicissimo aggettivo) dei tanti crimini di mafia degli anni ’70 e, soprattutto, degli anni ’80, da lui vissuti da giornalista in prima linea.
Specie nella parte centrale e in quella finale del libro si fa luce sulla relazione tra Sciascia e le vittime di quegli eventi tragici. Molte pagine sono dedicate al controverso rapporto tra Sciascia e Falcone e Borsellino evidenziandosi come le iniziali incomprensioni siano state chiarite e superate in più incontri pubblici.
Come detto, Cavallaro in “Sciascia l’eretico” non riesce a celare la simpatia nutrita verso un suo maestro di vita, e tuttavia in più di un punto l’autore esprime riserve su alcune posizioni da quel “faro” assunte. Cavallaro, nella sua documentata fatica biografica, non scrive il panegirico di Sciascia; né Sciascia l’avrebbe gradito.
Lo scrittore “eretico”, vigile e lucida coscienza critica dei suoi tempi capace di prevedere ciò che riservava il futuro, conosceva (non è da tutti) l’esercizio dell’autocritica, era consapevole della fallibilità del giudicare. Piuttosto rivendicava il suo diritto a contraddirsi. Tanto da riservare a se stesso un epitaffio di luminosa onestà: “Contraddisse e si contraddisse”.
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