Il pm della procura di Agrigento Emiliana Busto ha chiesto il rinvio a giudizio per cinque medici dell’ospedale San Giovanni Di Dio indagati per la morte di Marianna Bellia, 63 anni di Palma di Montechiaro, avvenuta il 24 luglio 2018 all’ospedale “San Giovanni di Dio”. I medici che hanno avuto in cura la paziente sono accusati di omicidio colposo in concorso. La donna era stata accompagnata al pronto soccorso alle 6.30 del 23 luglio dalla figlia e dal genero. Aveva forti dolori addominali. Dopo alcuni esami è stata ricoverata in Urologia.
Il consulente tecnico della procura Giuseppe Ragazzi che ha eseguito l’autopsia avrebbe riferito alcune responsabilità dei sanitari. All’esame partecipa anche il medico legale Mario Guarino consulente di parte della famiglia assistita nel procedimento dallo Studio 3A. La donna dopo due giorni trascorsi in ospedale la sera del 24 luglio alle 22.50 è morta. I familiari hanno presentato denuncia e adesso dopo le indagini il pm ha chiesto il rinvio a giudizio. L’udienza davanti al gup Luisa Turco fissata per lunedì 29 marzo davanti al gup Luisa Turco, e già slittata più volte anche causa Covid, è stata rinviata al 5 luglio.
Ad assistere la famiglia è il consulente legale Salvatore Agosta, a Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini, e viene presentata una denuncia all’autorità giudiziaria, con conseguente apertura di un fascicolo, il sequestro delle cartelle clinica e l’affidamento dell’incarico per l’autopsia: inizialmente il Pm procede contro ignoti, ma dopo il deposito della perizia medico legale iscrive nel registro degli indagati cinque dirigenti medici in servizio presso diverse Unità Operative del San Giovanni di Dio e, con provvedimento del 20 luglio, ne ha chiesto il rinvio a giudizio perché, per citare l’atto, “per colpa consistita in grave negligenza, nonché mancando di seguire le linee guida e le buone prassi settoriali individuate dalla comunità scientifica, omettevano di prestare idonea terapia alla paziente, determinandone la morte per shock settico ed emorragico”.
In particolare a G I., 41 anni, urologo, si imputa, durante il ricovero in Urologia, di aver “omesso di somministrare tempestivamente terapia infusionale nonché antibiotica atta a contrastare l’infezione alle vie urinarie in corso e di non aver eseguito il drenaggio del rene mediante posizionamento di catetere uretrale”; a V. V., 43 anni, rianimatrice, “di aver omesso nel corso della prima consulenza alla paziente di ricoverarla in Rianimazione, pur presentando una scarsa ossigenazione periferica e nonostante le fosse già stata somministrata la terapia di ossigeno in maschera; a S. B., 35 anni, e ad A. P., 46, urologi, di aver eseguito un intervento chirurgico di nefrostomia “danneggiando il rene destro della paziente”, e al direttore del reparto di Urologia, M. R., 64 anni, unitamente a S. B. e a G. I., di aver eseguito un intervento chirurgico di nefroctomia “determinando uno shock emorragico che aggravava il preesistente shock settico in corso determinando in tal modo il decesso”.
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