Era diventato l’incubo di bengalesi e marocchini. Fra corso Umberto e rettifilo Garibaldi a Licata (Ag), quasi ogni sera, armato di un coltellaccio o del collo di una bottiglia mandata in frantumi, minacciava, percuoteva e si faceva consegnare tutti i soldi che avevano i migranti che incontrava lungo la sua strada. Ora è stato arrestato.
Fortissimo l’allarme sociale che, di fatto, a Licata, ha iniziato a serpeggiare proprio fra gli extracomunitari. I carabinieri della compagnia di Licata hanno iniziato a raccogliere testimonianze, a visionare e ad acquisire filmati di videosorveglianza. Il ladro è stato identificato e arrestato in esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. A finire in cella è stato così un marocchino diciottenne.
Il giovane è stato accusato di rapina aggravata, estorsione e lesioni personali. Numerose le rapine messe a segno. Le indagini dei carabinieri della compagnia – che è coordinata dal capitano Augusto Petrocchi – hanno permesso di ricostruirne, identificando il presunto autore appunto, almeno una decina.
Nei giorni scorsi è stata scarcerata dopo l’interrogatorio di garanzia Monica Torregrossa, una delle donne coinvolte nell’operazione della polizia di Stato sulle «schiave del pulito», le nigeriane arrivate a Palermo e impiegate nei consorzi per fare le pulizie negli alberghi. La donna, responsabile del centro “la mano di Francesco” a Roccamena è difesa dall’avvocato Vincenzo Pillitteri.
Il provvedimento di revoca degli arresti domiciliari è stato disposto dallo stesso gip Annalisa Tesoriere, che aveva firmato l’ordine di arresto, per carenza di gravi indizi di colpevolezza. Anche lei ha raccontato al giudice che Luca Fortunato Cardella, uno degli altri arrestati nell’operazione, che assumeva le donne si era presentato, ha aggiunto la donna, come persona affidabile e aveva proclamato il suo impegno antirazzista.
Aveva più volte ribadito che l’impegno era di 3 o quattro ore al massimo, per una paga mensile di 400 euro. L’impiego delle ragazze non ha mai portato alcun utile alla struttura e non è mai stato riferito alle donne che sarebbero state cacciate se non avessero lavorato.
«Rilevato che tali attendibili e plausibili dichiarazioni – scrive il gip nell’ordinanza di scarcerazione – inducono a riconsiderare la consistenza in termini di gravità degli indizi a carico dell’indagata in ordine alle ipotesi di reato alla stessa ascritte in via provvisoria, sicché, venendo meno i presupposti di applicabilità va revocata la misura cautelare in atto applicata».
Un’altra donna Lamia Tebourbi, mediatrice culturale, difesa dall’avvocato Giorgio Bisagna, le era stato revocato il provvedimento agli arresti domiciliari. La donna ha ribadito durante l’interrogatorio che nel centro di accoglienza straordinaria “Donne Nuove» si batte per liberare queste donne dalla tratta e farle restare il più possibile in Italia. Per questo era fondamentale che le nigeriane avessero un contratto di lavoro perché in questo modo potevano dimostrare la loro inclusione che le avrebbe tenute lontano dalla tratta e dalla prostituzione.