C’è un’arte che non trova spazio nei manuali di scuola né nei discorsi dei grandi pensatori moderni, eppure è forse la più antica delle arti, l’unica che non richiede né strumenti né materiali, ma solo la disposizione dell’animo: l’arte del “dolce far niente”. Sì, lo so che molti di voi staranno già storcendo il naso, e mi sento già le loro voci pronte a obiettare, a ricordarmi quanto il lavoro nobiliti l’uomo e come l’ozio sia il padre di tutti i vizi. Ma permettetemi di dissentire, di schierarmi, anzi, a fianco di quella schiera silenziosa e disprezzata di coloro che non temono di cedere al richiamo del non fare.
Nel nostro Paese, dove tutto sembra ruotare attorno al concetto del lavoro incessante e del sacrificio, l’idea del “dolce far niente” è un’eresia. Ed è proprio qui che voglio fermarmi e difendere questa eresia, questa gioiosa abitudine italiana che ha radici profonde nella nostra cultura. E lo faccio non con l’arroganza di chi sa di avere ragione, ma con l’umiltà di chi riconosce che forse, ogni tanto, fermarsi può essere non solo un lusso, ma una necessità.
Il “dolce far niente” non è pigrizia, ma piuttosto un modo di essere. È un invito a rallentare, a lasciare che la vita scorra senza affanni, senza la fretta di dover sempre dimostrare qualcosa. È un’arte che si impara poco a poco, e che richiede una buona dose di coraggio: il coraggio di sfuggire alle trappole del dover fare per forza, del dover essere per forza. È un rifiuto silenzioso e dolce delle nevrosi contemporanee, un ritorno a quel tempo che non è mai perduto, ma solo ritrovato.
E non pensate che il “dolce far niente” sia sinonimo di vuoto mentale o di apatia. Al contrario, è in quei momenti di apparente inazione che la mente trova il tempo e lo spazio per vagare, per riflettere, per creare. Non è forse vero che le grandi idee spesso nascono nei momenti di ozio, quando la mente è libera di esplorare nuovi orizzonti, di abbandonarsi ai suoi pensieri più profondi? Gli antichi greci, che di saggezza ne sapevano qualcosa, lo sapevano bene. Aristotele ci insegna che “la felicità, la vera e duratura felicità, non si trova nella frenesia dell’azione, ma nella quiete della contemplazione”.
Mi vengono in mente quei pomeriggi d’estate, quando il caldo immobilizza ogni cosa e l’unico suono che si percepisce è il ronzio di una mosca pigra che gira per la stanza. In quei momenti, seduto all’ombra di un albero, con un libro che non ho voglia di leggere tra le mani, si scopre una verità che nessun trattato potrà mai spiegare: il piacere sottile e profondo di non fare nulla. Non è una fuga, ma un ritorno. Un ritorno a sé stessi, al proprio ritmo naturale, lontano dalle pressioni e dalle aspettative che il mondo esterno ci impone.
Già lo vedo il buon borghese che, leggendo queste righe, scuote la testa e pensa tra sé: “Tutto molto bello, ma la vita è un’altra cosa. La vita è fatta di lavoro, di sacrifici, di impegno”. E non posso dargli completamente torto. È vero, il lavoro è necessario, il sacrificio spesso inevitabile. Ma il problema è quando il lavoro diventa l’unico scopo, quando si sacrifica tutto – la propria salute, i propri affetti, la propria felicità – sull’altare della produttività. È allora che il “dolce far niente” diventa una ribellione, un atto di resistenza contro una società che ha dimenticato il valore del tempo.
Non si tratta, badate bene, di una pigrizia fine a sé stessa. Il “dolce far niente” è una scelta consapevole, una scelta di qualità contro la quantità. È il rifiuto di lasciarsi consumare dalla corsa senza fine verso obiettivi che spesso nemmeno comprendiamo fino in fondo. È il riconoscere che c’è un tempo per lavorare, certo, ma anche un tempo per fermarsi, per respirare, per guardare il cielo senza fretta.
Lo scrittore francese Victor Hugo affermava: “La pigrizia è una madre, essa ha un figlio: il furto, e una figlia: la fame”. Eppure, c’è da chiedersi se, in un mondo che celebra la produttività a ogni costo, non sia proprio la pigrizia – intesa come l’arte del fermarsi, del non fare – a salvarci da un’esistenza spogliata del suo senso più profondo.
E qui, vorrei concludere con una piccola riflessione. Forse, in un mondo dove tutto corre troppo in fretta, dove la vita sembra essere diventata una maratona senza fine, l’arte del “dolce far niente” è l’ultima frontiera di una vita vissuta davvero. Forse, dovremmo riscoprire il valore di quei momenti in cui non facciamo nulla, se non esistere. E in questo “dolce far niente”, potremmo scoprire, infine, la vera essenza della felicità.
Giovanni Guareschi, il creatore di Don Camillo, una volta scrisse: “La pigrizia non è altro che l’abitudine di riposarsi prima di essere stanchi”. E se fosse proprio questa la chiave di una vita più sana, più equilibrata? Se fosse la pigrizia, nella sua forma più nobile, il segreto per una felicità duratura?
Caro lettore, se ti riconosci in queste righe, se senti anche tu la stanchezza di una vita sempre di corsa, ti invito a fare un piccolo esperimento. La prossima volta che senti il bisogno di fare qualcosa solo per riempire il tempo, fermati. Siediti, respira, guarda fuori dalla finestra. E lascia che il “dolce far niente” faccia il suo miracolo. Potresti scoprire che non c’è nulla di più prezioso del tempo che regali a te stesso, senza scopo, senza obblighi. Solo per il puro piacere di essere.
https://lacompagniadelvangelo.blogspot.com/2025/01/larte-quasi-dimenticata-del-dolce-far.html
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